Tutta la vita davanti e il mondo ipocrita di Virzì

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Tutta la vita davanti e il mondo ipocrita di Virzì

26 Aprile 2008

Dovesse venirvi la
curiosità intellettuale di arrivare a capire la portata della distanza abissale
che corre tra la realtà economica e sociale italiana e la visione che di essa
ha la cultura popolare della sinistra italiana contemporanea, allora andate a
vedere “Tutta la vita davanti” di Virzì.

 Sul regista di
“Ferie d’Agosto” c’è poco da aggiungere oltre il cogliersi in questo film di una
interpretazione autenticamente veltroniana su quello che oramai più che
un mondo è diventato una parola d’ordine, un orizzonte di speranza per le
speculazioni politiche del collettivismo in ritirata: il precariato.

 L’ultimo
declinatore poppeggiante del sarcasmo cinematografaro democratico, su cui è
tristemente piegata la commedia all’italiana che era di Monicelli, ci regala
una visione onirica dell’inferno di violenza psicologica e di ingiustizia cui
viene relegata una fanciulla di belle speranze, il tutto per la cattiveria di
una società crudele.

 Marta, la poverina
e giovanissima catapultata dalla Sicilia in quel della Capitale è Isabella
Ragonese, una splendida neolaureata.

 Ha ricevuto la
lode, l’abbraccio accademico, le hanno pubblicato la tesi. Filosofia teoretica.

 La ragazza è la
rappresentazione pregnante degli stereotipi cui ci ha abituato il regista:
Marta è sfortunata, Marta è la bontà, Marta è lo stupore fatto persona.

 Ma il mondo
accademico la allontana, quello editoriale anche.

 Ecco che la nostra
eroina si trova a fare la baby sitter di Michela Ramazzotti, che le aprirà le
porte del call center, l’inferno di Marta.

 Qui trovano spazio
mostri di ipocrisia, falsità, disonestà, vuoti di spirito come i personaggi
interpretati da Ghini e la Ferilli, oppure esempi di limpidezza come il Lucio
di Elio Germano.

 Non manca
naturalmente l’imprenditore ridotto a macchietta. Truffaldino, rozzo,
ricettacolo del peggio che l’umanità possa offrire, uno che fa una fortuna
vendendo per corrispondenza prodotti difettosi e soprattutto sfruttando il
prossimo nel call center.

 Per fortuna arriva
Valerio Mastrandrea, un giovane sindacalista (sì avete letto bene), che combatterà la sua battaglia contro i mulini a vento, contro
l’ingiustizia che è l’esistenza contemporanea, il Capitalismo per quelli come
Virzì.

 Libertà, integrità,
indipendenza, tenacia, paiono valori inesistenti nell’universo raccontato dal
regista; l’aver portato a compimento un percorso di studio sembra per questa
morale costituire un diritto ad una vita realizzata, non un dovere di
progettualità professionale per chi ne ha avuto la possibilità.

 In quanto tale
l’imprenditore,  magari il piccolo
commerciante che si è fatto strada da sé, quello che alza la serranda alle sei
del mattino e torna a casa alle dieci di sera, quello senza tante
sofisticazioni culturali, è lui il diverso, la vittima predestinata di questo
razzismo di maniera.

 Avere una strategia
per la propria esistenza economica, portarla avanti costantemente senza se e
senza ma, nel tempo, negli anni, attraverso la vita, riconoscere il valore del
sacrificio come unica strada per l’affermazione è un qualcosa di troppo
prosaico, indicibile.

 Ma al di là dei
paradossi sociali raccontati nel film che poi trovano sonore e plateali
sconfessioni ogni volta che all’opinione pubblica di questo paese viene data
possibilità di esprimersi oltre le mediazioni del mainstream mediatico, si
osserva in questo film qualcosa di paradigmatico.

 Marta infatti per
evadere dall’inferno in cui si è cacciata inizia a immaginare un mondo
perfetto, un mondo dove la gente deve poter ballare dentro gli autobus, per le
strade, deve potersi abbracciare, deve poter lavorare senza fatica, deve poter
avere la possibilità di una felicità a portata di mano che nell’immaginario del
protagonista e nella logica immorale di Virzì si esprime nel dover far festa,
nella società del divertimento. 

 Un mondo dove anche
la morte, dove la mamma no, non è morta per davvero, esce dalla tomba per
tranquillizzare la povera Marta, “va tutto bene”.

 In pratica rivive
postmodernamente nell’immaginario del regista la sostanza del messaggio
socialista: qualcun altro (lo Stato) deve risolvere per te. Pensare a te, per
te, con te, deve lenire, superare, appiattire gli ostacoli e le durezze che ti
cadono addosso. 

 Un film protervo,
che guarda la società dall’alto in basso, che non rende giustizia alle Marta
sparse per tutto lo stivale, un film malato che ingenuamente confessa
l’impossibilità per l’etica collettivista contemporanea di dare un qualsiasi
valore alla volontà, volontà di cui, con buona pace di tanti, il mondo non è
che una rappresentazione.