Tutte Ie dittature temono una forte risposta occidentale in Libia
03 Marzo 2011
Dopo alcune settimane di quella che iniziava a sembrare una pericolosa paralisi strategica, i leader occidentali si stanno finalmente attivando per finirla con il colonnello Gheddafi. Che il ritardo sia stato determinato da una imprescindibile fase di pianificazione, o piuttosto dalle tante spade di Damocle ereditate da Bush e Blair, poco importa; chissà che alla fine, anzi, non sia stato un bene.
Con un bilancio di oltre mille libici morti, Gheddafi sembra sempre più capace di mantenere la sua promessa di “ripulire la Libia casa per casa”. Le notizie di questi giorni suggeriscono che diversi capi di governo, inclusi il primo ministro inglese David Cameron e il presidente americano Barack Obama, stanno considerando concretamente l’istituzione di una “no-fly zone”, di un’assistenza logistica ai rivoltosi ed eventualmente anche attacchi contro obiettivi militari del regime.
Che l’Occidente faccia tutto quello che può per porre fine al bagno di sangue e aiutare la Libia in una troppo a lungo rimandata transizione verso la democrazia, ovviamente è cosa assai importante per quei libici che proprio adesso stanno combattendo per il cambiamento. Ma i nostri governanti dovrebbero tenere a mente che non sarà solo Gheddafi a seguire molto attentamente quella che sarà la risposta occidentale alla crisi; staranno attentissimi anche i dittatori oltre i confini del Nord Africa e del Medio Oriente, le cui attività non sono attualmente al centro dell’attenzione mondiale.
Per esempio, Robert Mugabe, che negli ultimi tempi se ne è rimasto tranquillo nel suo Zimbabwe dopo che il cosiddetto governo di coalizione ha placato ogni opposizione al suo regime criminale, valuterà con grande interesse e massima accuratezza la risposta dell’Occidente. La domanda che Mugabe e gli altri autocrati come lui si staranno ponendo in questo momento è se, dopo tutto il clangore di sciabole giunto dalle cancellerie occidentali, alla fine prevarrà la pragmaticità del “business-as-usual” sull’idea di aiutare il popolo; o piuttosto, se i leader del mondo libero si sono infine decisi a dare una risposta degna ai popoli oppressi che trovano il coraggio di battere un colpo.
Che ci piaccia o no, la verità è che la cosiddetta “primavera araba” ha messo la “questione democrazia” in cima all’agenda internazionale, e la risposta da parte delle democrazie potrebbe dimostrarsi un fattore determinante non solo di quanto democrazia e libertà potranno sopravvivere in Medio Oriente, ma anche di quanto potranno diffondersi altrove.
I tiranni come Mugabe si sono resi conto da tempo che è assai improbabile che la pressione internazionale su di loro venga esercitata in mancanza di sommovimenti sociali, che forniscono l’indispensabile catalizzatore. Può certo accadere che qualche tiranno si attiri addosso condanne verbali per qualche delitto particolarmente oltraggioso contro il suo popolo, addirittura che divenga bersaglio di sanzioni da parte dell’Onu; però l’esperienza ci ha insegnato che se questi uomini restano in sella abbastanza a lungo, e la pressione internazionale non va oltre le parole, allora le voci dei tanti che chiedono le riforme si affievolisce, e l’attenzione del mondo si volge altrove.
Se qualcuno dubita che le cose stiano effettivamente così, pensi a quanti leader mondiali stavano chiedendo le dimissioni di Gheddafi tre mesi fa, o a quanti stanno chiedendo le dimissioni di Mugabe adesso.
Dunque, è importante far sì che la gente che vive sotto regimi dittatoriali in quelle parti del mondo che non sono sotto i riflettori internazionali sappia che, se decide di rischiare la vita per la democrazia e un governo più giusto, il mondo libero non si limiterà a lasciarla al suo destino. Sebbene le rivoluzioni in Tunisia e in Egitto abbiano mostrato che può bastare il potere della gente comune – quando non è osteggiato dai generali – a buttar giù un dittatore, per di più in maniera relativamente pacifica, la situazione in Libia ha dimostrato invece che in quei paesi dove la morsa del regime è più stretta sugli strumenti del potere, il popolo può non bastare. E anche se alla fine bastasse, la sua vittoria costerebbe comunque migliaia di vite.
Senza dubbio vi sarà chi ritiene che, per quanto sia una cosa bella, promuovere la democrazia è una scelta morale, non un imperativo strategico. Sbagliato. Come abbiamo imparato, a nostre spese, in Medio Oriente, la politica di appoggiare dittature in cambio di petrolio o di aiuto nel contrasto agli estremismi, non ha funzionato molto bene. Se un investitore volesse trovare nazioni dove i suoi affari non corrano il rischio di essere interrotti, un giorno, da un kamikaze o da combattimenti nelle strade, devono guardare a Norvegia e Canada, non alla Libia o all’Iran.
Oggi, ai nostri leader si sta presentando un’occasione storica, e una sfida difficile. La promozione della democrazia è tornata ad essere uno degli argomenti principali della politica internazionale, e sta ai nostri governi far sì che lo rimanga. Se le genti del Medio Oriente che chiedono riforme non venissero appoggiate con la dovuta decisione, e se questo appoggio non risultasse evidente, alla fine potremmo dover constatare che questa presunta nuova era non è stata altro che un’altra falsa partenza, che uscirà dalle prime pagine internazionali tanto rapidamente come vi è entrata, mentre l’attenzione del mondo, una volta di più, si volge altrove.
© The Telegraph
Traduzione Enrico De Simone
George Grant e Alexandros Petersen sono, rispettivamente, Direttore per la Sicurezza Globale e il Terrorismo e Direttore per la Ricerca presso la Henry Jackson Society di Londra.