Tutti gli errori dell’India nella lotta al terrorismo islamico

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Tutti gli errori dell’India nella lotta al terrorismo islamico

02 Agosto 2008

Pochi paesi, in anni recenti, hanno cambiato drasticamente la loro immagine pubblica come l’India. Anche se le fotografie di contadini affamati e strade dissestate hanno lasciato il posto a quelle di agili fotomodelle e di call center affollati, però, da almeno un punto di vista l’India resta ancora un paese arretrato, piuttosto che una grande potenza a venire. La bomba di venerdì scorso è esplosa nella capitale del software indiano, Bangalore, e quella di sabato nella fiera della città industriale di Ahmedabad, ma l’India si ritrova sorprendentemente male attrezzata per fare fronte alla piaga del terrorismo. 

Gli attentati di Bangalore e Ahmedabad, che hanno ucciso rispettivamente una e 49 persone, ferendone nel complesso più di 200, sono soltanto gli episodi più recenti in una serie di attacchi. Nel corso degli ultimi due anni i terroristi hanno preso di mira la città di Jaipur, nel nord, l’ipertecnologico aeroporto internazionale di Hyderabad, la città-tempio di Varanasi e la capitale finanziaria dell’India, Mumbai. 

Gli inquirenti hanno ricondotto gli attacchi più recenti ai Mujaheddin Indiani, un gruppo autoctono collegato al movimento Harkat-ul al-Islami, originario del Bangladesh, e con il Movimento Islamico degli Studenti Indiani, dichiarato fuorilegge in patria. Sia il Pakistan che il Bangladesh – enclave ritagliate dall’India britannica per dare una patria ai musulmani del subcontinente – offrono rifugio e soccorso ai terroristi. Il fatto che gli attacchi più recenti siano l’opera di un gruppo “made in India”, però, mostra che è ormai tempo che Nuova Delhi faccia i conti con le proprie mancanze nel campo della lotta al terrorismo. 

Uno degli errori più gravi, da parte della litigiosa classe politica del paese, è stato quello di rimpallarsi le politiche sull’antiterrorismo invece di unirsi nel nome di un obbiettivo minimo: garantire sicurezza a tutti i cittadini. Nel 2004 una delle prime misure ufficiali del governo di coalizione guidato dal Congresso – all’epoca sostenuto dagli alleati comunisti – fu di cestinare una legge nazionale sul terrorismo che avrebbe consentito una più efficace protezione dei testimoni e la detenzione per lunghi periodi di individui sospettati di aver preso parte ad azioni terroristiche. Gli effetti sono stati due: da un lato demoralizzare le forze di polizia, dall’altro notificare ai terroristi che lo stato indiano mancava di polso. L’irrisoria scarsità di arresti e condanne legati alla catena di bombardamenti che ne è derivata ha soltanto rafforzato quella impressione. Da parte sua, il partito di opposizione Bharatiya Janata Party ha bloccato l’istituzione di una quanto mai necessaria forza federale antiterrorismo. 

Il problema è che gli sforzi dell’India nel campo della lotta al terrorismo oscillano tra alternative inconciliabili. In quanto democrazia l’India non può adottare le misure forti ma efficaci cui inclinano, per fare un esempio, la Russia o la Cina. Al tempo stesso, però, l’India non dispone degli strumenti di spionaggio e di polizia che consentono a paesi europei come Francia, Spagna e, più di recente, Gran Bretagna di salvaguardare i diritti individuali e al tempo stesso di sventare piani terroristi prima che essi divengano realtà. Eppure, anche se questa può essere una spiegazione, non è senz’altro una scusa, dato che altri paesi sono stati in grado di superare i loro ostacoli nella lotta al terrorismo. 

Perfino l’Indonesia, una nazione a maggioranza musulmana dove la simpatia popolare per il terrorismo nel nome dell’Islam è più radicata che in India, ha lavorato in modo molto più efficace per la protezione dei suoi cittadini. Grazie soprattutto al Distaccamento 88, una unità di polizia speciale equipaggiata e addestrata dall’Austalia e dagli Stati Uniti, sono ormai quasi tre anni che nessun attentato terroristico su larga scala ha luogo su suolo indonesiano. 

In definitiva, però, il terrorismo è soltanto la proverbiale punta dell’iceberg. Il dilemma principale è questo: i musulmani indiani abbracceranno la modernità come buona parte dei loro correligionari turchi, tunisini e indonesiani oppure la rifiuteranno, come sempre più spesso i loro cugini militanti in Afghanistan e in Pakistan? Neppure su questo fronte i leader dell’India sono riusciti ad afferrare il nocciolo della questione. Il paese tende a praticare una linea di non intervento nei confronti della sua comunità musulmana, che conta 140 milioni di aderenti. A differenza di quanto accade in Europa o in America, i musulmani indiani sono governati dalla legge islamica, la shariah, in materie di pertinenza legale come il matrimonio, il divorzio e la successione. Questo sistema legale parallelo ostacola l’integrazione nella comune procedura nazionale e perpetua pratiche arretrate come la poligamia e il disinteresse per l’istruzione delle donne. Il risultato è una minoranza litigiosa, quasi del tutto priva dei requisiti per competere in una moderna economia e sempre pronta a invocare la violenza nel nome della fede. 

Se l’India vuole mostrarsi all’altezza del suo potenziale – e per dirla tutta anche della pubblicità eccessiva che ne è stata fatta – essa è tenuta a perseguire attivamente sia l’obiettivo a breve termine di aggiornare i suoi strumenti per la lotta al terrorismo, sia quello a lungo termine di modernizzare la sua popolazione musulmana e riportarla in linea con la media del paese. I musulmani indiani hanno arricchito la vita dell’India in moltissimi modi. La maggior parte di essi, come gli uomini di ogni credo religioso, è nonviolenta. Contrariamente a quanto si crede di solito, però, i musulmani indiani non sono usciti immuni dall’onda montante di pratiche ortodosse e atteggiamenti politici militanti che ha interessato il pianeta. Alcuni medici indiani avevano una parte negli attentati sventati lo scorso anno a Londra e Glasgow. In patria gruppi musulmani hanno preso di mira critici come lo scrittore in esilio Taslima Nasreen, originario del Bangladesh. Una ricerca condotta dal noto studioso pakistano Akbar Ahmed ha rivelato che la maggior parte dei musulmani indiani appartenenti agli strati colti riconoscono modelli positivi in Abul Ala Maududi, il defunto ideologo dell’Islam, in Sayyed Ahman Khan, che nel XIX secolo proclamò la supremazia musulmana, e in un influente religioso residente a Bombay, Zakir Naik, che celebra Osama bin Laden e invoca l’estensione della shariah a tutti gli indiani. 

I musulmani indiani non vantano il monopolio sulla violenza o l’oscurantismo, ci mancherebbe. Nondimeno, le sfide che stanno affrontando sono particolarmente difficili. La comunità sceglierà di guardare in avanti, pronta ad afferrare le nuove opportunità economiche, riconciliandosi con un mondo in rapida trasformazione, oppure rifiuterà il futuro nel nome di un passato idealizzato, alimentando una cultura del risentimento che giustifica la violenza e scorgendo nella globalizzazione una minaccia mortale? A seconda della risposta gli attentati di Bangalore e Ahmedabad saranno un fenomeno transitorio oppure l’annuncio di sinistri sviluppi a venire. 

© Wall Street Journal

Traduzione Francesco Peri