Tutti i dubbi sull’Onda Verde, Mousavi e i brogli elettorali in Iran

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Tutti i dubbi sull’Onda Verde, Mousavi e i brogli elettorali in Iran

24 Giugno 2009

Ieri abbiamo pubblicato un articolo scritto da uno studente iraniano per il New York Times che metteva in evidenza 4 punti decisivi nella analisi di quanto sta accadendo in Iran.

Il primo è la forte carica utopica espressa dal movimento della “Onda verde”, con i giovani, gli studenti, le donne, scesi in piazza a manifestare contro il regime di Ahmadinejad. Il secondo sono le "contro-narrazioni" – come le definisce lo studente – che stanno emergendo fra gli osservatori e gli esperti occidentali sul voto iraniano (ma è proprio vero che le elezioni sono state una frode?). Il terzo punto – forse il più interessante – riguarda il modo con cui noi occidentali guardiamo all’Iran. L’urbanizzazione, secondo l’articolo del NYT, ha profondamente modificato la composizione e il tessuto sociale, etnico e religioso del Paese: il 70 per cento della popolazione vive nei grandi centri urbani e questi ultimi sono profondamente stratificati. Di conseguenza gli analisti che credono a una divisione netta fra le borgate pro-Ahmadinejad e i quartieri ricchi pro-Mousavi (a Teheran), così come all’antitesi fra mondo urbano favorevole al cambiamento e quello agricolo che spinge per la conservazione, sono fermi a una rappresentazione dell’Iran che non corrisponde alla realtà. Il quarto punto è che Mousavi, un uomo dell’establishment al potere, si è trovato coinvolto in un movimento più grande di lui ed è quasi un caso che sia lì a guidare l’Onda. Onda che, secondo lo studente, starebbe per compiere una rivoluzione, visto che “nessuno sa da dove sono saltate fuori le decine di migliaia di persone che negli ultimi giorni hanno affollato le strade di Teheran”.

Fin qui l’articolo del New York Times. Ma proviamo a rileggere i “4 punti”  alla luce di quant’è accaduto negli ultimi giorni. Iniziamo proprio dalle utopie che, da che mondo e mondo, hanno sempre animato i movimenti studenteschi. L’idea che una rivoluzione, più o meno pacifica, possa nascere grazie a delle avanguardie “illuminate”. Uno scenario che solitamente comporta due esiti molto diversi fra loro. Il primo è che la rivoluzione riesce solo se le suddette avanguardie sono in grado di conquistarsi il consenso di altri segmenti della popolazione e di una parte degli apparati della forza che dovrebbero reprimerle. Ma non è questo il caso dell’Iran. Il secondo esito è che la rivoluzione fallisce. Fino adesso l’Onda non è riuscita a trascinarsi dietro altri pezzi della popolazione: i commercianti, i tassisti, gli operai dell’edilizia, i conservatori delle classi medie e del proletariato cittadino, non sembrano appoggiare più di tanto gli studenti. Forse perché temono di esporsi o forse, più semplicemente, perché sono preoccupati dallo spontaneismo e dal ribellismo anche violento del movimento, che potrebbe finire per peggiorare la già precaria situazione del Paese. “Le truppe – scrive l’agenzia di intelligence Stratfor – hanno mostrato di avere tanta simpatia per i dimostranti quanto potrebbe averne un ragazzetto di una piccola città dell’Alabama per un ricercatore di Harvard”. Non è Bucarest 1989, quindi, ma somiglia sempre di più a Tienanmen 1989.

Veniamo all’urbanizzazione. Sarà pur vero che se non vivi in Iran non puoi capire come e soprattutto quanto si sia modificato il contesto sociale negli ultimi anni ma uniformare tutta la realtà iraniana a quello che accade a Teheran è limitante. In questa analisi potrebbe aiutarci quanto scrisse lo storico Michel Vovelle sulla Rivoluzione francese, a proposito delle geografie rivoluzionarie e dei diversi "irraggiamenti" che in situazioni come queste dal centro raggiungono le periferie e viceversa. Teheran è una metropoli che – considerando anche i sobborghi – arriva a circa 13 milioni di abitanti  (il 20 per cento della popolazione del Paese). Questo però non vuol dire che la visione del mondo di un cittadino della capitale sia la stessa di chi vive in un paesi di 10.000 abitanti o in una città che ne conta 100.000  (l’Iran ha almeno 80 città con 100.000 abitanti). Urbanizzazione non fa per forza rima con ansia riformista e fermenti rivoluzionari. Durante la Rivoluzione francese ci fu prima una sollevazione che si diffuse da Parigi nelle altre città e nelle campagne ma poi anche un movimento inverso che dalla periferia portò verso il centro: la Vandea, la controrivoluzione. 

C’è poi il discorso sui brogli elettorali. E’ possibile, anzi è probabile che dei brogli ci siano stati anche se non si può dire precisamente in che dimensioni. Ma una cosa sono i brogli e una cosa lo stato d’animo profondo del Paese cioè il consenso che Ahmadinejad ha saputo conquistarsi negli ultimi anni con la sua politica nazionalista e statalista e grazie a una serie di benefici elargiti a fette della popolazione per renderle una base salda del proprio elettorato (i pensionati, per esempio). Tornando alle elezioni, è stato scritto che lo spoglio dei voti è avvenuto in maniera troppo veloce e spedita e che poche ore dopo il conteggio già si conoscevano i risultati. Ma non stiamo parlando di elezioni troppo complicate; il meccanismo del conteggio dei voti di una presidenziale come quella iraniana – sempre secondo Stratfor – in teoria non dovrebbe essere né troppo lungo né troppo difficile. Guardiamo anche al voto etnico. Mousavi ha perso nella sua città natale dove avrebbe dovuto godere della maggioranza perché azero come gli abitanti del luogo. Ma anche Ahmadinejad parla azero e ha fatto un’intensa campagna elettorale da quelle parti. D’altra parte i trend del voto rispecchiano quelli che portarono al potere Ahmadinejad nel 2005. Se mai i dubbi derivano dal fatto che il presidente ha incrementato il suo consenso. In ogni caso, se i brogli fossero stati davvero così massicci ed evidenti probabilmente avremmo contato milioni di persone che protestavano. Ma non è accaduto.

L’ultimo punto riguarda Mousavi e quello che sta accadendo all’ombra del sistema di potere iraniano. Può anche essere, come dice il NYT, che Mousavi sia rimasto sorpreso dal movimento di cui si è trovato a capo. Ma Mousavi è solo una pedina di una complicata partita a scacchi giocata tra i chierici ostili ad Ahmadinejad e il partito del presidente. I primi temono di veder minacciati i loro interessi e il loro potere politico durante il secondo mandato, mentre Ahmadinejad ha fatto una campagna elettorale tutta giocata sulle critiche rivolte agli ambienti della mullocrazia che gli sono ostili, accusandoli di corruzione e di voler svendere il Paese agli interessi inglesi e americani. La guida suprema Khamenei non si è sbilanciata, mostrandosi ora disponibile ad ascoltare le richieste dei riformisti (Mousavi, l’ex presidente Khatami), ora ad accontentare la ‘fronda’ conservatrice (dal capo dell’Assemblea degli Esperti Rafsanjani allo speaker del parlamento Larijani), ora schierandosi dalla parte di Ahamadinejad. In un primo momento Khamenei ha promesso un parziale riconteggio dei voti e un altrettanto improbabile ritorno alle urne. Poi, quando ha capito che Ahmadinejad avrebbe potuto scatenare le forze repressive che gli sono fedeli contro la piazza in un potenziale bagno di sangue, la guida suprema è tornata ad allinearsi sulle posizioni del presidente.

In mezzo ai due gruppi che si fronteggiano è rimasto il movimento studentesco. I manifestanti però non sembrano avere molte chance di prendere il potere, almeno non da soli, e rischiano di essere manipolati da questo o da quell’altro attore impegnato nella lotta di potere iraniana. L’impressione è che Mousavi sarà sempre più sulla difensiva mentre il presidente Ahmadinejad, forte della sua rielezione e del blocco di potere che continua ad appoggiarlo, è il favorito nella battaglia in corso.