Ucraina, un paese spaccato a metà

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Ucraina, un paese spaccato a metà

30 Maggio 2007

Con
la rivoluzione arancione del 2004 l’Ucraina non ha soltanto scoperto cosa vuol
dire vivere in un regime democratico; da quel momento in poi Kiev ha dovuto
aver a che fare col frutto avvelenato di una cronica instabilità politica. Gli
episodi della scorsa settimana, con l’ipotesi di un ventilato colpo di stato
presidenziale, sono infatti soltanto l’ultimo capitolo di una saga che, dalla
fine del regime di Leonid Kuchma, ha portato a galla le profonde divisioni
politiche, culturali, nonché linguistiche e “nazionali” dell’ex granaio
sovietico, divisioni impersonate dai due catalizzatori della scena politica
ucraina recente: il presidente filo-occidentale ed (ex) eroe della rivoluzione
arancione Viktor Yuschenko e il suo arcirivale ed esponente della parte più
vicina a Mosca del paese, il premier Viktor Yanuković.

Gli
ultimi eventi hanno visto un riacutizzarsi della crisi che, tranne per pochi
momenti di tregua, ha contraddistinto i palazzi del potere di Kiev e
condizionato le scelte strategiche in settori delicati per un ex satellite
russo indeciso sull’opportunità di scrollarsi di dosso la tutela più o meno
discreta di Mosca. L’inizio dell’ultimo (in ordine cronologico) braccio di
ferro tra i due Viktor ha avuto inizio lo scorso aprile, quando il presidente
decise di sciogliere il parlamento, la
Rada, nel quale il Partito delle regioni, la formazione del
premier, stava facendo opera di proselitismo tra i deputati di Nostra Ucraina
(il partito “arancione” di Yuschenko) con l’eventuale fine di raggiungere una
maggioranza tale da rendere ineffettivi i veti presidenziali e dettare la
propria linea in temi controversi quali l’avvicinamento alla Nato e all’Unione
europea. Lo scioglimento per decreto, e la convocazione di nuove elezioni il 27
maggio, ha provocato una reazione a catena fatta di continui confronti tra il
presidente e il primo ministro: i deputati della maggioranza sono rimasti al
loro posto invocando l’illegittimità della decisione presidenziale, mentre la Corte costituzionale,
interpellata da Yanuković proprio su tale questione, decideva di non
pronunciarsi per l’eccessiva pressione politica esercitata nei suoi confronti.

L’escalation
è continuata quando reparti speciali di polizia, su ordine del ministro dell’Interno,
si sono posti a difesa dell’ufficio del procuratore generale ucraino, un
alleato del primo ministro, dopo che Yuschenko gli aveva revocato la carica.
Questa sfida alla decisione presidenziale ha fatto da miccia agli episodi più
recenti: il presidente ha avocato a sé il controllo sui reparti speciali di
polizia del ministero, togliendoli quindi al controllo di Yanuković e
ordinandone il dispiegamento intorno alla capitale. Più che di un tentativo di
colpo di stato presidenziale, la mossa di Yuschenko va letta come lo sforzo di
dimostrare di avere ancora la situazione sotto controllo, in un periodo di
grande appannamento della sua autorità. Il calo di popolarità del presidente è
da imputare sia al malcontento popolare per l’arenarsi delle riforme promesse
durante i giorni della protesta arancione, sia alla performance da molti
giudicata arrendevole nei confronti di Yanuković, sconfitto alla presidenziali
(quelle senza brogli) nel 2004 ma richiamato come premier nel 2006, non solo
perché vincitore relativo delle elezioni ma soprattutto come conseguenza delle
faide interne alla coalizione arancione e della inconciliabilità tra Yuschenko
e la sua ex alleata, la “pasionaria” Yulia Tymoschenko. Il possibile richiamo
ad una soluzione militare delle crisi, tatticismo più che possibile mossa
concreta, ne ha accelerato la soluzione. Dopo un’estenuante maratona negoziale
di 12 ore i due Viktor hanno firmato una dichiarazione in cui si affermava il
raggiungimento di un compromesso e l’indizione di nuove elezioni il 30
settembre.

Nonostante
le strette di mano e i sorrisi, appare evidente come l’accordo del 27 maggio
sia più che altro una tregua, pronta a rompersi nuovamente al momento delle
elezioni. Appare infatti difficile che queste ultime possano consegnare al
presidente un parlamento più docile, visto che il Partito delle regioni di
Yanuković ha buone probabilità di essere nuovamente il più votato. Ciò non
significa però che i giochi siano fatti prima ancor di iniziare: un’eventuale
ricomposizione della coalizione arancione (il partito della Tymoschenko arrivò
secondo alle scorse elezioni, quello di Yuschenko solo terzo) potrebbe lasciare
Yanuković all’opposizione, ma non sarebbe da escludere addirittura una
“Grossekoalitione” in salsa ucraina, con un’alleanza direttamente tra Nostra
Ucraina e il Partito delle regioni.

Quello
che appare oltremodo chiaro, sia agli analisti esterni quanto a chi campeggiò
per settimane in una gelida Kiev con una sciarpa arancione al collo nel
dicembre 2004, è che, per usare un’espressione berlingueriana, la “spinta
propulsiva” della rivoluzione arancione sembra essersi oramai esaurita. L’ondata
di entusiasmo seguita ai tentativi riusciti, prima in Georgia e poi in Ucraina,
di scrollarsi di dosso la nomenklatura post-sovietica installatasi col
beneplacito moscovita negli stati successori dell’Urss, si è arenata nelle
fanghiglie del potere e della realtà sul terreno. La ragione per cui a Kiev le
cose non sono andate altrettanto bene come a Tbilisi è che l’Ucraina di oggi è
un paese strabico, con un occhio che guarda a occidente, alla Nato, all’Unione
europea e alla propria indipendenza energetica, e un altro che guarda a Mosca. Yuschenko
ha dovuto realizzare sulla sua pelle come quasi metà del paese che guida non
guarda nella sua stessa direzione, e non ne vuole sapere nulla d’integrazione
euro-atlantica. Una metà del paese oltretutto economicamente molto rilevante,
dato che vive nell’industrializzato est russofono. La normalizzazione in
Ucraina sembra ancora lontana, e l’accordo della scorsa domenica è soltanto una
pausa nello scontro tra le due anime del paese, scontro che ha consegnato
l’Ucraina ad una pericolosa empasse politica.