Umano, troppo umano. Obama non è quel superman che pensavamo
06 Agosto 2010
Quella del presidente statunitense Barack Hussein Obama sarà senza dubbio un’estate meditabonda, fors’anche di grattacapi. Ha infatti pochi precedenti il capitombolo dalle stelle alle stalle che lo vede protagonista oramai da diversi mesi, lui che era il beniamino di tutto il jet-set e che piaceva a quelli che piacciono, lui che “Yes, we can” sembrava pronto a spazzare tutto e tutti sul proprio cammino, lui che “Change” avrebbe rifatto il mondo da capo a piedi ed eternato le magnifiche sorti e progressive del genere umano come raccontano efficacemente e con stile Martino Cervo e Mattia Ferraresi nel buon libro Obama. L’irresistibile ascesa di un’illusione (prefazione di Giuliano Ferrara, Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2010). Ora qualche remo in barca Obama lo dovrà infatti pur tirare, qualche valutazione la dovrà fare, qualche pensierino sapido e non solo tattico ce lo dovrà pur regalare.
Perdere magari con stile (o cercare quanto meno di farlo) le elezioni prossime venture può avere pure qualche senso, ma alla fine della fiera si tratta comunque solo e sempre di logiche di transizione, al massimo di sortite estemporanee che poi però lasciano il tempo che trovano, di soluzioni tampone che strategicamente possono anche ripagare a breve termine e dopo dove si va?
Perché Obama non è solo un uomo, non è solo un presidente. Obama è una semidivinità, un demiurgo che ha promesso la palingenesi, un supereroe destinato dagli astri a nascere nel tempo propizio per rifare questo mondaccio cane sbagliato sin dall’inizio. La sua è una sfida agli elementi, una corsa contro il tempo eterno, una tenzone con l’assoluto. Su di lui si addensano gli sguardi della storia, prendono forma le speranze dell’umanità, si condensano le forze dell’universo. Altro che Napoleone a Lipsia, l’uomo hegeliano della provvidenza immanente, la fine e il fine della storia è lui, alfa chissà omega certamente. Se cade, frana. Se sbaglia, tonfa. Se tentenna, paralizza. Risfogliate le cronache della sue elezione e ve ne renderete conto, elzeviri, commenti, reportage sul pargolo di una divinità umanistico-superomistica che finalmente scendeva a calcare le polveri del mondo per riplasmarlo a immagine e somiglianza di nessun sa cosa ma comunque è buono, a condurlo nessuno sa dove e però ci va, a rieducarlo ma tutti giurano di avere visto la luce.
Per uno così l’estate deve per forza portare consiglio. E sennò le oramai famose elezioni di medio termine, quando il 2 novembre si celebreranno nel segreto dell’urna fatale dove Dio ti vede ma Obama no, e le “minoranze perseguitate”, e i liberal e i Democratici e i progressisti delusi tutti giù a fregarsi di gusto le mani sin d’ora, potrebbero pure cominciare davvero a far già scorrere anzitempo i titoli di coda che precede l’improcrastinabile “The End”. E a sipario calato, scende sul serio la notte in cui tutte le vacche sono nere, quella dove i numi non riconoscono più i propri pari e i vati si danno alla macchia.
Tutto iniziò in quel tardo 2007 che sembrava un dì qualunque e che invece dal cilindro del mago partorì un signor nessuno destinato alla gloria. Proseguì poi lungo tutto il faticoso, penoso 2008 con una retorica tra le più smaccate e in moto ondoso in aumento. E alla fine trionfò inviolato con una ridda di parole che ci seppelliranno dentro il cuore stesso della Casa Bianca. Nessuno di coloro che hanno votato quel presidente saprebbe però mettere, oggi come nemmeno allora, per iscritto venti righe di programma politico sostanziale di Obama; nessuno saprebbe in piena coscienza dire perché milioni di persone di ogni tipo hanno consegnato a Obama il proprio voto affinché ne facesse disinvoltamente quel che più gli aggradava, fatta la tara di qualche facile slogan che ha che fare con “il primo presidente nero”, le “minoranze”, bla-bla-bla. Non esiste ancora alcuno, infatti, negli Stati Uniti che possa in piena coscienza dire di sapere qual è la linea politica seguita con chiarezza e determinazione da Obama negli affari esteri: il cerchiobottismo fin qui praticato camminando sulle uova non basta certo a parlar di programma o di politica, e la serie altalenante di decisioni indecise per esempio su quella bazzecola che si chiama guerra al terrorismo mondiale rasenta il ridicolo.
Tutti ricorderanno i discorsi trascendenti e trasecolanti con cui Obama promise il “prossimo” ritiro delle truppe americane dai teatri caldi del Medioriente e dell’Asia Centrale calendarizzando di fatto tempi uguali (un pochino più lunghi?…) di quelli previsti dal suo predecessore alla casa Bianca Geroge W. Bush jr. Tutti ricorderanno l’intenzione di Obama, sentimentale come si addice al suo physique e propagandistica sempre sopra le righe, di chiudere la prigione militare di Guntanamo (dove ogni possibile torto compiuto dai servicemen statunitensi veniva comunque regolarmente denunciato dalla stampa e corretto dal sistema giudiziario e militare vigente negli States), salvo poi fare dietrofront nel memento in cui ci si è impattati tutti quanti con la realtà vera.
Confusione, inesperienza e indecisione, le parole d’ordine della nuova Casa Bianca dovranno pure cominciare a preoccupare i re magi che non si stufano di osannare il nuovo messia. In politica interna, invece, Obama un filino più di vision l’ha dimostrata. Disastrosa. Promise subito, appena eletto, di cancellare qualche centinaio di provvisioni varate da Bush jr., e in buona parte lo ha fatto. Tutte quelle buone, ci mancherebbe. Assicurò che avrebbe subito cercato di mettere mano alle leggi sull’aborto per allargarne la fruibilità come si conviene agli sfruttatore delle ansie dei diseredati ai liberatori di chi non ha nemmeno per l’anticamera del cervello il bisogno della liberazione, e ci si è messo di buzzo buono.
Inciampò in campagna elettorale in qualche imbarazzante qui pro quo sulle radici identitarie cristiane della nazione statunitense e sul suo personale credo religioso, e poco dopo essere entrato alla Casa Bianca scandalizzò tutti, come mai aveva fatto un presidente americano (John R. Bolton, l’ex ambasciatore bushano alle Nazioni Unite definisce infatti giustamente ed efficacemente Obama il primo presidente postamericano della storia americana), recandosi a dai gesuiti della Georgetown University per chiedere subito che prima del suo augusto speech l’altro augusto, Gesù, venisse oscurato in quell’effige, IHS, che lo avrebbe sovrastato vegliante da dietro le spalle e che sta lì, nell’America laica e protestante da prima che il paese fosse, visto che quell’ateneo c’era quando ancora il Nuovo Mondo era colonia britannica, 1653 per i cultori dell’esattezza di genere e specie.
Il magico Obama suscitò poi un altro vespaio enorme andando a inaugurare l’anno accademico alla University of Notre-Dame di South Bend, alle porte d’Indianapolis, allorché vi ci si recò gravido del proprio fardello liberal così che in quel frangente, con lettera solenne, l’ex ambasciatrice bushana alla Santa sede, Mary Ann Glendon, una gran donna, una gran moderata, mica un’avvezza alle piazzate, rifiutò per sdegnata protesta l’onorificenza di cui l’ateneo l’aveva insignita.
Poi Obama ha messo mano alla pietra filosofale del progressismo americano di mezzo secolo e più, raccogliendo dalle dita del morente senatore Democratico Edward Moore Kennedy (1932-2009) detto “Ted” la famosa riforma sanitaria e l’opposizione popolare non ci ha visto più. Checché ne dicano e ne abbiano detto i commentatori di qui e di là, il tema non è masi stato l’estensione della sicurezza sociale a chi poveretto non ce l’ha, ma chi quel servizio eroga. E a quali prezzi. E perché adesso questo invece che quello. Lo Stato, insomma, o le compagnie private, nel primo caso lucrandoci l’élite del potere autorefenziale, nel qual caso i privati, fra cui certamente nuotano un numero enorme di squali, ma squalo per squalo il cittadino medio americano continua a preferire quello che ti morde facendoti pagare meno, oltre al fatto che lo Stato gli americnai sanno bene come (non)lavora.
Sopra, sotto, a fianco e nel mezzo ha quindi imperato la gestione obamiana della crisi economica a suon di “salvataggi” a spese dei contribuenti, prestiti a pioggia a chi aveva appena dimostrato nessuna responsabilità e nessun criterio di gestione salubre dei denari, e tutto sempre a spese dei cittadini, “stimoli” fallimentari che non stanno portando da alcuna parte.
Il risultato è quel che si vede ogni giorno nelle piazze americane: la stella di Obama appannata da una opposizione popolare e trasversale davvero senza precedenti, la quale chiede l’unica misura economica che possa rilanciare il Paese dal basso (da dove esso solo può ripartire) e che pure è al contempo l’unica idea culturalmente sensata atta a rilanciare le libertà concrete di quei cittadini che sono da sempre il solo verso nerbo su cui sono state costruite le immani fortune di un Paese oggi purtroppo in caduta libera: la riduzione dell’eccessivo carico fiscale.
I sondaggi, che si susseguono (rileggete la bella sintesi che offre l’informato Osvaldo Baldacci su cronache di liberal del 15 luglio), danno Obama in calo costante di gradimento; il suo stesso elettorato, in parte enorme, è oramai decisamente disilluso da un leader che non sa mai quali pesci pigliare e che una ne pensa e cento ne fa, sbagliate. La stessa popolazione nera ha deciso, in numeri consistenti, di guardare altrove in campo politico. Diego Armando Maradona è per Napoli quello che Barack Hussein Obama è per il ricostruzionismo sfascita dei liberal. Uscirà di scena scornato anche il secondo? La sua luna calante proprio non accenna a fermarsi. Un pensierino balneare sulla marea nera che lo incalza il presidente più potente e perdente del mondo lo faccia. Gli converrebbe.