Un decennio disonesto. Dieci anni di appeasement multiculturale

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Un decennio disonesto. Dieci anni di appeasement multiculturale

Un decennio disonesto. Dieci anni di appeasement multiculturale

10 Settembre 2011

Alcuni lettori avranno visto il film americano Casablanca, uscito nel 1942 nel pieno del secondo conflitto mondiale. Ambientato in tempo di guerra nell’omonima città in Marocco allora sotto il controllo della Francia di Vichy, il film ha un cast internazionale composto da uomini e donne provenienti da Stati Uniti, Norvegia, Gran Bretagna, Germania, Francia, Paesi Bassi, Cecoslovacchia e Bulgaria ai quali la straziante esperienza dell’Europa occupata dai nazisti ha lasciato una preziosa lezione sul valore della libertà. Alcuni di loro si trovano a Casablanca perché sono fuggiti dall’Europa e cercano un disperato passaggio in America, che sembra l’unico faro di libertà in un mondo che si fa sempre più buio.

In una delle scene più emozionanti, un gruppo di ufficiali nazisti che sta bevendo al tavolo dell’American bar Rick’s, ambientazione principale del film, inizia a cantare Die Wacht am Rhein, e gli altri avventori rispondono alzandosi in piedi uno dopo l’altro e intonando La Marsigliese. In qualche modo, dopo l’11 settembre molti di noi si aspettavano dall’Occidente qualcosa di simile a quel sentimento di unità internazionale per la causa della libertà. Ma ciò non si è verificato. Perché? La spiegazione sta in parte nel diffuso insuccesso nel comprendere la natura del nemico. Per anni dopo l’11 settembre, un gran numero di persone in posizioni influenti ha sistematicamente descritto il terrorismo islamico come una risposta disperata alla povertà, all’oppressione e, o, alla politica estera occidentale.

Per qualche ragione costoro non sono riusciti a capire di cosa davvero si tratti: una campagna jihadista mossa da gente che cerca di conquistare l’Occidente più o meno come Maometto ha conquistato il Nord Africa, assoggettando gli infedeli e imponendo la sharia. Mentre alcuni in Occidente avevano frainteso il nemico e le sue ragioni, altri ne avevano sottovalutato le capacità. Il benessere di qualcuno può anche significare il tracollo di un altro: proprio come sembrava inconcepibile che le Torri Gemelle potessero essere buttate giù tanto facilmente, così la nostra civiltà occidentale era da molti considerata indistruttibile e l’idea di doverla difendere sapeva un po’ di vecchio film melodrammatico. Alle orecchie di questa gente, la pura verità sulla minaccia jihadista suonava esagerata, persino isterica; chi cercava di spiegare quel che stava accadendo, e di sottolineare la gravità della situazione, era sistematicamente etichettato come “allarmista”.

Ci sono altri segnali rivelatori del senso di sicurezza assoluta di molti giovani europei, della loro totale incoscienza di qualsiasi chiara e immediata minaccia alla loro libertà. E – potremmo aggiungere – la loro scarsa familiarità con qualsivoglia concetto di responsabilità morale che vada oltre le t-shirt del Che o la kefiah palestinese con cui giocano a identificarsi con quel fascino esercitato su di loro dall’idea di una rivoluzione violenta contro la propria civiltà. L’11 settembre io ero un americano che viveva in Europa. Quel giorno mi sono accorto di non aver mai lasciato casa, perché si trattava – lo sapevo – di un attacco non solo al mio paese ma a tutto il mondo libero. Eravamo evidentemente in guerra, non solo con un pugno di terroristi, ma con milioni e milioni di persone che condividevano la loro ideologia e plaudivano alle loro azioni, pur facendolo solo a porte chiuse. Per alcune persone in Occidente, gli eventi di quel giorno hanno funto da campanello d’allarme, richiamando la loro attenzione sulla realtà della guerra jihadista all’Occidente, sul fatto che il mondo libero aveva nemici in quantità che disprezzavano la democrazia e il cui odio affondava le radici in un libro vecchio di milletrecento anni. Per me il campanello d’allarme ha cominciato a suonare un paio d’anni fa.

Nel 1999, quando mi stabilii in un quartiere a maggioranza musulmana di Amsterdam solo pochi mesi dopo essermi trasferito dagli Stati Uniti nei Paesi Bassi, mi guardai intorno e mi accorsi che fino ad allora non avevo fatto caso a un tassello fondamentale del puzzle europeo. E cioè, per la precisione, che l’ascesa delle comunità musulmane non era un fenomeno transitorio ma che piuttosto segnava i primi passi di una società islamica europea auto segregata e in forte crescita, che si stava facendo sempre più convinta e assoluta nel suo rifiuto dei valori occidentali.

Le celebrazioni nelle strade di tante città e cittadine europee in seguito al crollo delle Torri Gemelle confermarono la mia percezione delle sinistre possibilità che tale enclave conteneva. Sulla scia dell’11 settembre, i leader europei si sentirono obbligati a unirsi all’America nell’invadere l’Afghanistan. Ma la dimostrazione iniziale di solidarietà ("siamo tutti americani") lasciò velocemente il posto alle dichiarazioni di politici, intellettuali, accademici e giornalisti secondo cui quell’11 settembre gli Stati Uniti se l’erano cercato con l’appoggio a Israele, con il sostegno ai dittatori arabi, con la promozione della globalizzazione e via discorrendo. Ma l’Europa no. L’Europa – avevano insistito – era amica dei musulmani.

E – dissero – i musulmani questo lo sapevano. Perciò l’Europa era al sicuro. Ben presto divenne questa l’ortodossia dell’Europa occidentale. A qualche giorno appena dall’11 settembre, il famoso scrittore norvegese Gert Nygårdshaug pubblicò un pezzo d’opinione in cui irrideva l’idea di un possibile imminente attentato "a Oslo, a Roma o a Copenhagen". In questa presa in giro fu tutt’altro che solo. Poi vennero i 191 morti di Madrid l’11 marzo del 2004, i 56 morti di Londra il 7 luglio del 2005 e gli imponenti attacchi terroristici a Bali, Beslan e Mumbai, per tacere degli innumerevoli atti di terrore sventati in Europa, Nord America e altrove. Nei Paesi Bassi, un celebre giornalista, regista e raconteur di nome Theo van Gogh venne brutalmente assassinato da un musulmano olandese di nascita per aver realizzato un cortometraggio che criticava il trattamento riservato dall’Islam alle donne. Nei sobborghi a forte presenza islamica delle città francesi, i giovani musulmani fecero della rivolta un’attività quotidiana, affermando la propria autorità sui quartieri in cui vivevano.

In Danimarca, sfidando l’intimidazione musulmana e con l’intento di riaffermare la libertà di espressione, il quotidiano "Jyllands-Posten" pubblicò una decina di vignette, in risposta alle quali i musulmani, sia in Europa che nel mondo, protestarono, devastarono, uccisero. Questi eventi chiarirono bene il fatto (per chi ai fatti era interessato) che per i jihadisti il nemico non era solo l’America o il suo presidente in carica, né questa o quella decisione in materia di politica estera, ma ogni paese il cui popolo vivesse libero invece che sottomesso al Corano. Per lungo tempo molti membri dell’élite dell’Europa occidentale avevano minimizzato, e persino negato, ogni connessione fra questi eventi. Eppure, anno dopo anno, la verità si faceva sempre più chiara per chi era disposto a vederla: benché l’11 settembre il bersaglio fossero stati gli Stati Uniti, i jihadisti islamici non facevano distinzione fra Nord America ed Europa. Erano in guerra, e il loro nemico era tutto il mondo occidentale…

Continua a leggere l’articolo sul sito di Ventunesimo Secolo – Rivista di Studi sulle transizioni….

Tratto da 11 Settembre. 10 anni dopo, Ventunesimo Secolo – Rivista di Studi sulle transizioni, Anno X, Numero 25, Giugno 2011. Tutti i diritti riservati

Traduzione Andrea di Nino