Un dibattito sulla superiorità del “genio ebraico” accende gli Usa
04 Novembre 2007
Nel corso degli ultimi anni, un importante dibattito ha preso forma all’interno della società statunitense: è la questione riguardante l’identità ebraica, che nei suoi toni più radicali ripropone da un lato nei contenuti – se non nei toni – l’antisemitismo di chi considera il popolo ebraico come uno dei grandi mali del mondo, oggi rappresentato da un manipolo di sofisticati ingannatori che hanno piegato la politica estera di George W. Bush agli interessi della causa sionista in Medio Oriente; e che dall’altro vede la strenua difesa della stirpe ebraica in quanto geneticamente e qualitativamente migliore alle altre razze: ovvero, interpreta letteralmente l’immagine del popolo eletto delineata nella Bibbia come segno di eccellenza e superiorità del popolo ebraico. Quest’ultima linea di pensiero è tanto più rilevante se si considera che riviste autorevoli come Commentary, così come organizzazioni prestigiose quali l’American Enterprise Institute, hanno pubblicato a suo favore.
Proprio l’AEI ha difatti recentemente presentato in toni entusiasti il nuovo libro del giornalista statunitense Jon Entine, Abraham’s Children, nel quale l’autore si propone di rispondere al quesito riguardante la costruzione dell’identità di una persona e, più specificamente, indaga la natura dell’“essere ebreo”. Facendo riferimento alle nuove e sofisticate conquiste della genetica, Entine illustra la possibile connessione tra l’analisi del DNA e la prova della particolare tipologia di intelligenza del popolo ebraico, concludendo che in realtà gli ebrei sono una razza a sé stante, che si distingue da tutte le altre. In Abraham’s Children, l’identità del “popolo eletto” è ricostruita attraverso un percorso biblico-storico che riscopre gli antenati comuni dei cristiani e degli israeliti, proponendo attraverso le tecniche della genetica più all’avanguardia un nuovo approccio per definire la speciale identità ebraica.
Ancora più conosciuto e certamente più controverso è l’articolo “Jewish Genius” dello scienziato sociale Charles Murray, pubblicato sulla rivista Commentary nell’aprile 2007: la tesi centrale dello studioso statunitense, precedentemente esposta in un suo discorso presso la Herzliya Conference in Israele lo scorso gennaio, sostiene che la presenza accentuata degli ebrei -qualitativamente e quantitativamente asimmetrica rispetto alle altre etnie e religioni- nelle categorie di eccellenza mondiale delle arti, scienze, medicina, finanza, impresa e media è da attribuirsi all’indiscutibile quanto elevato quoziente intellettivo che caratterizza questo popolo. Murray si concentra su come e perchè gli ebrei abbiano acquisito tale preminenza, trascurando l’effettiva veridicità del dato di partenza, che secondo lo studioso è incontestabile in quanto scientificamente provata.
A riprova delle sue convinzioni Murray in primo luogo cita la rilevanza delle due grandi rivoluzioni che il popolo ebraico ha portato nel mondo, a partire dall’800 avanti Cristo (o, come periodizza Murray, prima dell’era comune): la piena e complessa concettualizzazione del monoteismo, che non solo ha posto le basi per lo sviluppo delle tre grandi religioni (cristianesimo, islamismo ed ebraismo), ma ha creato un modo unico di guardare al significato della vita umana ed alla storia secondo i principi che ancora oggi definiscono la sensibilità moderna; e la teologia cristiana, che attraverso la sua formulazione nel Nuovo Testamento ha influenzato ogni aspetto della civiltà occidentale.
In merito a tale puntualizzazione, è possibile contestare a Murray come né il monoteismo né la teologia cristiana -per quanto indiscutibilmente grandi scoperte non solo per il popolo ebraico ma per tutto il mondo- appaiono d’altronde in alcun modo connessi con la preminenza intellettuale degli ebrei: si tratta di grandi passi nella storia dell’uomo, che tuttavia non implicano la superiorità di chi per primo li ha mossi. Né sono prova della superiorità genetica della loro stirpe i grandi nomi degli intellettuali, studiosi, scienziati ed artisti ebrei giunti a noi attraverso i secoli, nonostante Murray sostenga -citando il lavoro dell’eminente storico della scienza George Sarton nella sua Introduction to the History of Science- come la storia si sia sistematicamente impegnata ad escludere gli ebrei attraverso “restrizioni legali e selvagge discriminazioni sociali”. Neppure il fatto che dalla prima metà del Novecento ad oggi la percentuale degli ebrei che hanno ricevuto il Premio Nobel in letteratura, chimica, fisica e medicina/fisiologia sia salita dal 14 al 32% costituisce un’argomentazione convincente -specialmente tenendo conto che Murray classifica come “ebreo” non necessariamente chi pratica o anche solo crede nella religione ebraica, ma chiunque possa vantare anche solo un esile legame geneticamente riconducibile al popolo di Israele (come Spinoza, scomunicato dalla comunità ebraica nel 1656, o Montaigne, ebreo-spagnolo da parte di madre). Resta il fatto che qualsiasi teoria della supremazia della razza che brandisce le conquiste dei propri rappresentanti come segno indiscutibile della propria superiorità, tralasciando ogni altro fattore di tipo ambientale, educativo e sociale che possa aver contribuito ai loro brillanti successi, può essere criticata proprio in virtù di questo focus alquanto miope.
Murray porta ulteriori affermazioni a sostegno della propria tesi riguardante la superiorità del popolo ebraico, forse non del tutto consapevole di quanto esse possano suonare irriguardose -per non dire dogmatiche- alle orecchie di molti suoi lettori. “Gli ebrei hanno una media di intelligenza straordinariamente alta, come provato dai test che misurano il quoziente intellettivo” scrive lo studioso, senza entrare nel merito del metodo di selezione dei campioni statistici, dei fattori esterni che possono influenzare i risultati o della natura degli IQ test, dei quali peraltro numerosi ricercatori contestano oggi la validità. “Un ebreo scelto a caso ha una probabilità maggiore di essere più intelligente di qualsiasi membro -sempre scelto a caso- di altra etnia o nazionalità”, prosegue Murray; “e niente di quanto affermo è scientificamente controverso”, conclude forse troppo simplisticamente lo studioso.
Molto più interessante è secondo Murray la provenienza delle qualità che elevano il popolo ebraico al di sopra di coloro che sono “solamente intelligenti”. Perché secondo questo scienziato gli ebrei dimostrano un livello superiore di immaginazione, ambizione, perseveranza e curiosità, oltre che di mere intelligence? Murray afferma che la risposta, in questo caso, è speculativa; tuttavia “due potenziali spiegazioni sono così ovvie, che secondo molti devono per forza essere vere”. Secondo i genetisti e gli storici, prosegue Murray, la prima ragione dell’intelligenza superiore degli ebrei è riconducibile alle innumerevoli persecuzioni subite dal loro popolo, nel corso delle quali coloro che veramente furono capaci di mantenere la fede attraverso le difficoltà furono allo stesso modo in grado di mantenere in vita il giudaismo; in più, solo gli ebrei più brillanti e capaci sopravvivessero alle persecuzioni. Ciò nonostante, questa spiegazione non soddisfa pienamente Murray; lo scienziato però non contesta ad esempio, come avrebbe piuttosto fatto Primo Levi, che il discrimine tra sommersi e salvati nei campi di concentramento era totalmente arbitrario, ed accadeva infatti tragicamente che un uomo retto, valente e capace venisse ucciso barbaramente solo per il suo trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato; Murray avanza invece un’obiezione consequenzialista al proprio stesso argomento, affermando che le “scremature” operate dalle persecuzioni sono difficilmente il motivo per cui gli ebrei sono oggi più intelligenti: gli individui più speciali difatti correvano il rischio di venire uccisi per primi, in quanto più visibili e perché potevano essere percepiti come una minaccia. E poi, prosegue Murray, “anche gli zingari sono stati oggetto di persecuzione per secoli, senza che questo tuttavia li portasse a sviluppare un’intelligenza superiore”.
Si procede dunque alla seconda ragione addotta da Murray a sostegno della superiorità intellettuale del popolo ebraico: le politiche eugenetiche. Murray asserisce che gli ebrei avrebbero organizzato nei secoli matrimoni di prestigio, dove i figli di accademici e studiosi sposavano i figli di mercanti e banchieri, così combinando le abilità di ragionamento astratto con l’intelligenza pratica e dando vita ad una razza eletta. Il risultato di queste politiche riproduttive, favorito dall’osservazione su base genetica che -come gli animali- l’uomo cerca sempre il partner più forte e sano con cui accoppiarsi, ha fatto sì che gli ebrei conseguissero sempre migliori condizioni di vita: più reddito significa meno moralità infantile, migliori condizioni igieniche, miglior accesso a cibo sano e variato: dunque secondo Murray l’intelligenza superiore del popolo ebraico è affiancata alla capacità di accedere a migliori risorse, le quali hanno portato allo sviluppo di quella che lo studioso chiama better reproductive fitness.
L’ultima motivazione con la quale Murray argomenta la superiorità intellettiva del popolo ebraico si riconduce alle teorie degli antropologi Gregory Cochran, Jason Hardy e Henry Harpending, apparse anche sul Journal of Economic History nel 2005 in un articolo di Maristella Botticini e Zvi Eckstein, titolato “Jewish Occupational Selection: Education, Restrictions, or Minorities?”. Tutti questi studiosi sostengono che l’elevazione del quoziente intellettivo degli ebrei è dovuta alla selezione avvenuta in seguito al loro accesso ad occupazioni nelle quali l’intelligenza è garanzia di successo: confutando ad esempio la comune credenza che gli ebrei non siano mai stati agricoltori a causa dell’impossibilità di ottenere il possesso di terreni adatti alla coltivazione, la teoria di Cochran-Hardy-Harpending sostiene che questo popolo comprese sin dagli albori della civiltà il valore della capacità di leggere, scrivere e far di conto, abbandonando le realtà contadine per dedicarsi a occupazioni più redditizie. Murray aggiunge che a queste considerazioni si è associato il carattere intrinsecamente intellettualistico della religione e delle preghiere ebraiche, i cui testi non vengono semplicemente letti e mandati a memoria meccanicamente, ma richiedono sforzo intellettivo e ragionamento. Per questo, sostiene lo studioso, i buoni ebrei sanno leggere ma devono anche essere intelligenti, possedere capacità speciali; gli altri vengono lasciati indietro, proprio come accadde ai tempi di Babilonia, dove la prigionia operò da criterio di selezione per far sì che i rappresentanti più validi del popolo ebraico avessero l’opportunità di elevarsi.
Come si accennava introduttivamente, le tesi di Murray in merito al dibattito riguardante l’identità ebraica occupano una posizione piuttosto radicale nel panorama statunitense. Non si tratta, come ha affermato Norman Podhoretz, di uno studioso che valuta attentamente le ipotesi non completamente razionali di superiorità della razza ebraica “alzando le mani” di fronte all’evidenza incontestabile dei successi raggiunti da questo popolo nonostante le persecuzioni, la diaspora e le discriminazioni, e concludendo ironicamente che l’unica spiegazione restante è che -in mancanza di elementi che ne chiariscano definitivamente l’origine- il motivo ultimo del “genio ebraico” sia “un’ipotesi felicemente irrefutabile: che gli ebrei siano il popolo prescelto da Dio”. Murray non si prefigge nemmeno di dimostrare che l’essenza del popolo ebraico ha valore in quanto intrinsecamente significativa, in virtù delle consapevolezze storiche di un popolo che innegabilmente ha sofferto per rimanere unito e mantenere vive la propria patria e le proprie radici, e per questo è degno di rispetto e di ammirazione. Lo studioso argomenta che essere ebrei significa essere migliori di tutte le altre etnie e religioni, perché si è geneticamente superiori ad ogni altra razza -e questo sulla base di prove oggettivamente poco tangibili. Una tale radicalizzazione può portare la discussione su piani ipotetici, discriminatori ed arbitrari, allontanandola dall’ambito accademico al quale sarebbe opportuno rimanesse ancorata.