Un dollaro debole minaccia l’ordine mondiale

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Un dollaro debole minaccia l’ordine mondiale

Un dollaro debole minaccia l’ordine mondiale

12 Giugno 2008

 

Provate per un attimo a immaginare come si sentirebbero gli americani se capissero tutto ad un tratto che i loro più fidati partner in affari hanno iniziato – lentamente ma inesorabilmente – a imporre un dazio contro i beni statunitensi – dazio che ora sarebbe in eccesso del 50% circa.

Quello che puzza di marcio in questa vicenda, poi, è che questi stessi partner commerciali sarebbero anche i nostri alleati più importanti, sia dal punto di vista militare che da quello ideologico. Ci piace pensare che condividiamo gli stessi valori morali quando si tratta di difendere la democrazia e i vantaggi del libero mercato capitalistico.

Scoprire che gli stessi proponenti principali del mercato aperto globale – quelli che insistono sul level playing field (condizioni e regole uguali per tutti, ndt) – pensano soltanto ad adottare politiche per rendere i nostri prodotti troppo costosi per i loro clienti e, allo stesso tempo,  continuano a offrire i loro beni a prezzi scontati in giro per il mondo, è una delusione enorme.    

Ora sapete come si sentono oggi i membri dell’Unione Europea.

Come ha recentemente osservato l’economista della Fed David King, il valore del dollaro Usa contro quello dell’euro è drasticamente calato nel corso degli ultimi anni. A dicembre del 2002, un dollaro valeva come un euro; oggi per comprare un euro ci vuole un dollaro e mezzo. Per i consumatori americani questo significa che i prezzi dei beni importati europei  sono più alti del cinquanta per cento di quello che invece sarebbero stati se il dollaro avesse conservato il suo valore sull’euro.

Peccato per i nostri stimati amici d’oltreoceano. Se l’esorbitante rialzo dei prezzi fosse stato il risultato di un dazio imposto dal governo Usa, allora questi “amici” avrebbero potuto trascinarci davanti al WTO con la scusa che noi americani stavamo perseguendo politiche commerciali poco oneste. Ma, visto che l’aumento dei prezzi è stato raggiunto per mezzo di politiche monetarie magnanime riguardo a cause come quella interna,e accompagnato da dinieghi peraltro plausibili provenienti dalle più alte sfere – “un dollaro forte e negli interessi della nostra nazione” – non c’è molto che gli europei possano fare.

L’euro è la moneta ufficiale utilizzata da 320 milioni di europei in 15 Stati membri: Austria, Belgio, Cipro, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo , Slovenia e Spagna.  Altri tre Stati membri – Danimarca, Svezia e Regno Unito – utilizzano invece le loro proprie monete. Ma ci sono altri nove Stati che sono entrati a fa parte dell’Unione Europea nel 2004 che hanno tutti fissato degli obbiettivi di convergenza per fare un modo di unirsi alla zona euro nel futuro: Slovacchia (2009), Lituania (2010), Estonia(2011), Bulgaria (2012), Ungheria (2012), Lettonia (2012), Repubblica Ceca, Polonia (2012) e Romania (2012).

Proprio pensando a questi ultimi Stati membri dell’Unione Europea – in passato vittime della pianificazione centralizzata in stile sovietico – dovrebbe essere chiaro il fatto che gli Stati Uniti non stanno meramente tentando di rendere la competizione nel mercato globale meno accesa svalutando il dollaro, ma hanno interessi ben più grandi in gioco. Inutile ricordare che la relazione tra la stabilità dei prezzi e lo sforzo imprenditoriale è profonda. Perché mai , infatti, qualcuno dovrebbe prendersi la briga di lavorare sodo e rischiare i suoi soldi se le ricompense finanziarie di tali sforzi possono essere allegramente erose dall’inflazione? Il vecchio detto comunista  – “loro fanno finta di pagarci noi facciamo finta di lavorare” – riflette proprio il cinismo tipico del cittadino subordinato al governo totalitario. I soldi “puliti”, invece, sono le fondamenta del capitalismo democratico.

Ecco perché gli Usa mandano al mondo un messaggio ambiguo quando chiudono un occhio sulle conseguenze della svalutazione della loro unità monetaria. Lo stesso accade quando noi americani abusiamo del privilegio – per occuparci dei nostri problemi – di rifornire la riserva valutaria globale ricorrendo ad una politica monetaria “svelta di mano”  – gonfiando la realtà sulla nostra fuoriuscita dalla crisi immobiliare o spingendo con circospezione quelli che pagano le tasse verso fasce di reddito più alte, stiamo sempre veicolando un messaggio sbagliato.

Perché mai la nazione che abbraccia la filosofia di Adam Smith e la saggezza della “mano invisibile” permette che la propria moneta comprometta la validità della segnaletica dei prezzi nel mercato globale? Come possono gli americani appoggiare la causa del libero mercato ed esortare le altre nazioni a disfarsi di misure protezionistiche come dazi doganali e sussidi statali – e allo stesso tempo dichiarare subdolamente che le esportazioni Usa stanno diventando “più competitive” mentre il dollaro affonda?

Questo non si chiama competere, ma barare.

Gli Usa non possono andare avanti sostenendo che il destino del dollaro è, in qualche modo, fuori dal loro controllo. Il mantenimento di una valuta stabile non è soltanto una responsabilità morale ma anche un imperativo strategico. Fino a che imporremo agli europei di sopportare i costi della lotta all’inflazione, peraltro sguinzagliata dalla politica accomodante della Fed – tassi di interesse più alti e la tariffa nascosta dell’apprezzamento monetario  – allora vuol dire che staremo anche rinnegando la nostra comune devozione per il capitalismo democratico, sia in via di principio, sia dal punto di vista pratico. Non solo, staremo anche rischiando di creare una spaccatura nella nostra vitale alleanza proprio nel momento in cui la situazione geopolitica richiede una parternship strategica.

È interessante notare come uno dei più importanti obbiettivi di politica estera immaginato dal candidato Repubblicano John McCain consista nel formare una “Lega delle Democrazie” per promuovere i valori della libertà e della democrazia. “Io sono un idealista”, ha ammesso McCain durante il Los Angeles World Affair Council dello scorso marzo, “e credo sia possibile rendere il mondo in cui viviamo oggi un posto migliore e più pacifico, in cui i nostri interessi e quelli dei nostri alleati siano più sicuri, e gli ideali americani che hanno cambiato il mondo – il principio del libero mercato e delle libere genti – avanzino più di quello che hanno già fatto”.

La più importante guerra ideologica dalla fine della Seconda Guerra Mondiale – quella che racchiudeva in sé le potenzialità per annientare la specie umana per mezzo di uno scambio di testate nucleari – ha di fatto unito gli Usa e quella che allora si chiamava l’”Europa Occidentale” contro il “Blocco dell’Est”, dominato dall’Unione Sovietica.  Oggi, mentre la Russia sembra dimostrare un rinnovato interesse nel riappropriarsi  dei suoi vecchi territori, l’apparente vittoria democratica della Guerra Fredda non può più essere data per scontata. Non dovremmo nemmeno sottovalutare il ruolo che, delle stabili relazioni monetarie, giocano nel facilitare i liberi mercati e assicurare il buon funzionamento del libero commercio.

L’Ucraina , tra gli Stati europei che si sono recentemente convertiti alla democrazia, è uno di quelli più assediati e forse anche uno dei più importanti. Qual è la minaccia più seria nei confronti delle prospettive di successo per la democrazia ucraina? L’inflazione, che ora come ora ha superato il 30%. La hryvnia ucraina, infatti, è ancorata al valore del dollaro, per questo ogni taglio al tasso d’interesse nei fondi americani della Fed si riflette in un enorme riflusso di verdoni che poi deve essere riconvertito dalla Banca Centrale ucraina nella valuta domestica, esacerbando sempre di più l’inflazione.

Un modo per alleviare quest’impatto consisterebbe nello stabilire un valore della moneta ucraina similare a quello del dollaro. Questo però comprometterebbe gli sforzi di incrementare le sue due più importanti industrie  per le esportazioni: quella metallurgica e quella chimica. Ironicamente, poi, la Russia si ritrova in una simile difficile situazione, forzata a scegliere tra l’inflazione (il rublo è attestato al 55% sul dollaro e al 45% sull’euro ) o una valuta al rialzo.

Sembrerebbe veramente difficile parteggiare per la Russia in questo momento. Tuttavia, le incertezze economiche e le tensioni sociali scatenate dal caos delle valute possono soltanto danneggiare l’immagine degli Stati democratici in giro per l’Europa e il mondo. La proposta di McCain, tesa alla creazione di nuove istituzioni  per mettere al sicuro e far prosperare i cangianti valori della libertà individuale e del capitalismo imprenditoriale, racchiudono grandi speranze. Per creare delle fondamenta stabili sulle quali basare la prosperità globale, però, la Lega delle Democrazie dovrebbe anche assumersi una responsabilità essenziale che consiste in una riforma monetaria internazionale.

L’ex-Primo Ministro francese Edouard Balladur, ha invocato un’unione tra l’Europa e gli Usa in un libro di 120 pagine pubblicato in Francia lo scorso novembre e che asserisce la necessità di “mettere fine al disordine delle valute fluttuanti, che minaccia la prosperità del mondo intero e il suo progresso, e che – alla fine – distruggerà l’idea stessa di liberalismo”. Il Premio Nobel Robert Mundell suggerisce invece un’unione  monetaria e di valuta tra il dollaro, l’euro e lo yen che potrebbe essere portata avanti allo stesso modo di quella europea. Entrambi gli studiosi hanno anche incluso la possibile inclusione dell’oro in un sistema monetario internazionale riformato, riconoscendo l’importanza di proteggere la sua integrità per mezzo di meccanismi e sanzioni automatiche sotto il controllo del governo.

A prescindere dalle assicurazioni del capo della Fed Ben Bernanke – “stiamo attenti alle implicazioni di un cambiamento nel valore dell’inflazione del dollaro”- rimane la necessità di denaro “pulito”.

Lo standard dell’oro batte il doppio standard.

L’Economista Judy Shelton è autrice del libro “Money Meltdown” (Free Press, 1994)  

Copyright © Wall Street Journal

Traduzione Andrea Holzer