Un errore imputare solo a Fini la colpa di ciò che accade nel Pdl

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Un errore imputare solo a Fini la colpa di ciò che accade nel Pdl

29 Luglio 2010

In questo non facile momento politico, nel quale si consuma di fatto la rottura tra i due cofondatori del partito, i sostenitori o i simpatizzanti del centrodestra non debbono cedere alla tentazione di dare una lettura personalistica di questa lacerazione. Soprattutto, a nostro avviso, occorre evitare di addossare tutta la colpa a Gianfranco Fini, facendo dell’attuale presidente della Camera il comodo capro espiatorio di una situazione più generale.

Un simile atteggiamento è sconsigliabile non solo sotto il profilo tattico, per così dire. Una considerazione di elementare buon senso suggerisce, infatti, di non inserire un ulteriore elemento di risentimento e di tensione a un quadro già fortemente condizionato da fattori emotivi. A questo primo motivo bisogna poi aggiungere una più sostanziale ragione di metodo. Solo analizzando gli elementi a nostra disposizione con animo sgombro da pulsioni passionali, infatti, sarà possibile ricavarne indicazioni utili anche per il futuro.

Checché si pensi delle polemiche di questi giorni, se operiamo una considerazione di lungo periodo, che investa gli ultimi quindici anni, i meriti politici di Fini sono fuori discussione. Per quanto fatto in questo non breve arco di tempo, l’ex leader di An si è meritato un posto d’onore nei futuri libri di storia. Sotto questo profilo sarà ricordato come il politico capace di trasformare una destra nostalgica (non priva di componenti eversive o antisistema) in una componente essenziale di una compagine di governo.

Una simile premessa comporta anche la negazione di una lettura autolesionistica dell’accaduto. Non si può supporre che il contributo determinate da lui dato alla nascita del Pdl fosse viziato all’origine da una riserva mentale. Semmai occorre considerare un aspetto particolare che può aver svolto un ruolo non secondario nella determinazione degli eventi.

Fini deve essersi reso conto da subito che nella nuova formazione politica a lui non sarebbe spettato il ruolo di erede designato. Contro una simile prospettiva congiuravano diversi elementi. C’era, in primo luogo, un dato numerico, il fatto, cioè, che la componente aennina fosse minoritaria rispetto a quella proveniente da Forza Italia. Inoltre, e soprattutto, la leadership carismatica di Berlusconi (come ogni leadership carismatica) non può prevedere successioni, cioè preordinare la propria scomparsa.

Convinto di non poter aspirare al ruolo di delfino, Fini ha cercato di guadagnare spazio e peso contrattuale in modo da poter giocare meglio le proprie carte al momento della successione. Da qui la tattica del controcanto che lo ha portato a distinguere puntigliosamente la propria posizione da quella del partito, praticamente su tutti i temi man mano presenti nel dibattito politico. Il passaggio successivo è stato quello della conta dei fedelissimi, per risicare la maggioranza e detenere così una sorta di potere di veto sull’operato del governo. Alla lunga però il gioco di alzare l’assicella si è spinto troppo avanti fino a superare il punto di non ritorno.

Cosa accadrà prossimamente è difficile dirlo, il futuro è in grembo a Zeus. La dinamica degli eventi, però, suggerisce già una conclusione di ordine generale. Per quanto si sia formato in una compagine politica che viveva ai margini della prima repubblica, la cultura politica di Fini è tutta interna a quel mondo. Un mondo nel quale la manovra tattica che si muove per linee interne, l’imboscata parlamentare (vera o minacciata), la schermaglia che serve a coprire una diversione sono viste come la quintessenza dell’arte politica e non come forme deteriori di politicismo. In altri termini il problema Fini non s’intende se non lo si colloca in un contesto più generale, che prenda in considerazione il clima culturale, per così dire, che si respira nelle stanze ovattate della Capitale.

Come si vede, al di là della persona di Fini, le conclusioni cui ci porta la nostra analisi non invitano all’ottimismo. Finché la cultura politica dominante nei palazzi romani sarà questa, riuscire a chiudere la transizione italiana risulterà davvero molto difficile.