Un Gingrich in versione Cav. dice che farà tornare i giudici nei ranghi

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Un Gingrich in versione Cav. dice che farà tornare i giudici nei ranghi

20 Dicembre 2011

di E.F.

Il grande show delle primarie GOP in vista delle presidenziali del prossimo anno sta lentamente entrando nel vivo. Ciò accade per molte ragioni. La più evidente è che le prime votazioni del caucus dello Stato Iowa, previste per il prossimo 3 Gennaio, si avvicinano. Per questo i candidati tirano fuori dalla manica i loro best shots, i colpi migliori. Il favorito Repubblicano dell’ora, l’ex-speaker della House of Representatives, Newt Gingrich, sta dominando il dibattito pre-Natalizio su una questione alla quale noi italiani siamo piuttosto usi, per così dire: lo scontro tra giustizia e politica.

Declinato in verbo politico statunitense, si tratta di una battaglia contro la judicial supremacy, la supremazia del potere giudiziario, una formula nata quasi 53 anni fa, nel 1958, quando l’allora Chief Justice, il presidente della Corte Suprema Usa, Earl Warren, nel noto caso Brown vs. Aaron, diede voce a un’unanime Corte Suprema la quale in base alla clausola di supremazia inserita nella Costituzione americana, di fatto avocava a sé il diritto esclusivo di esegesi costituzionale richiamando il precedente Brown. Da qui la judicial supremacy.

Si dirà: "Ma com’è possibile che una faccenda del genere, tanto tecnica, finisca per ottenere tanto spazio politico e mediatico?". E’ presto detto il perché. Da qualche anno a questa parte, su tutto il territorio statunitense, si moltiplicano i casi di giudici federali che se ne escono con sentenze che, ognuna nel suo caso di specie, lentamente sopprimono il valore pubblico della religione, in particolare di quella cristiana. Decidono cos’è matrimonio. Cos’è la vita e una vita.

Si va dal divieto imposto dal giudice Fred Biery, l’attuale Chief Judge del Distretto occidentale del Texas a San Antonio, il quale non più tardi dello scorso Giugno ha minacciato l’arresto del sovraintendente di una scuola pubblica qualora avesse concesso, durante la cerimonia di diploma in un liceo, la menzione di parole come “prayer” preghiera, “God” Dio, “Benediction” Benedizione, fino ad arrivare all’abolizione nel 2002 da parte di un giudice federale della dizione ‘under God’ aggiunto nel 1954 dall’ammini-strazione Repubblicana di Dwight Eisenhower al Pledge of Allegiance, il giuramento di fedeltà agli Stati Uniti. 

Di questo anomalo –  quanto appassionante –  dibattito sul ruolo dei giudici federali nella vita pubblica e più in generale sul peso del potere delle corti nella triade potere legislativo, esecutivo e giudiziario,  il candidato Gingrich si è impossessato (gioco facile visto che lo ha generato), scandendone la ritmica. Le soluzioni da lui proposte sono interessanti, per alcuni controverse (sono state bollate così non solo in campo Democratico: due Attorney general di Bush jr. Mukasey e Gonzales hanno attaccato le proposte di Gingrich).

Gingrich parla direttamente di “rimozione” dei giudici dalle loro corti, della possibilità di emettere un mandato di comparizione per gli stessi giuidici di fronte al Congresso per spiegare il significato di alcune loro sentenze. Anche durante lo storico programma della Cbs, “Face the Nation”, il conduttore Bob Schieffer si è divertito a chiedere a Gingrich cosa farebbe se da presidente i giudici federali si rifiutassero di comparire: “Gli si manderei gli ‘US Marshal’”.

Quando Gingrich parla del judicial supremacy nei suoi comizi in giro per l’America, il Repubblicano taglia corto: “Si tratta di un artefatto della Corte Suprema di Earl Warren. Non esiste alcuna ragione storica per cui il potere giudiziario debba essere più forte della branca legislativa o esecutiva. … I nostri padri fondatori disegnarono per questo un sistema fondato sul bilanciamento dei tre poteri”.

I precedenti a cui Gingrich fa riferimento sono illustri. Si parte da Thomas Jefferson – che assieme al suo Segretario di Stato James Madison, due padri fondatori della Costituzione e degli Stati Uniti – licenziò, con il Judicial Reform Act del 1802, 18 su 35 giudici federali in una botta sola. “E’ questi due erano persone che ne sapevano qualcosa di Costituzione”.

Gingrich cita anche il ‘mito’ Abraham "Abe" Lincoln. Nel 1857, a soli quattro anni dallo scoppio della Guerra di Secessione, durante il suo primo discorso inaugurale da presidente, Abe si rifiutò di accettare che la “Dred Scott decision” della Corte Suprema (che avrebbe di fatto esteso la schiavitù agli tutti gli Stati Uniti) fosse law of the land (la lex terrae), sostenendo che fosse semplicemente una law of the case, ovvero una sentenza valevole solo nel caso di specie.

A guardar bene quello che Gingrich mette al centro del suo messaggio elettorale è una conflitto antico, e che ha trovato momenti di dibattito anche in Italia. Si tratta del conflitto annoso tra costituzione formale e costituzione materiale, che coinvolge anche il ruolo del giudice (bocca della legge o esegeta-novatore de facto della legge?). 

Per il candidato Repubblicano quest’idea che il potere giudiziario americano possa dettare le regole del gioco ed essere più potente del potere esecutivo o legislativo è un’eresia costituzionale pura e semplice. “Alexander Hamilton nel ‘The Federalist’ volume 78, dice apertamente che il potere giudiziario è il potere più debole tra i tre che costituiscono il governo. L’idea che oggi nel nostro sistema ci sia un potere giudiziario strapotente è contrario alla nostra Costituzione”, ha ricordato recentemente Gingrich in un suo comizio.

Gingrich sembra deciso ad andare fino in fondo e a trasformare la questione "giudici" in uno degli argomenti centrali del suo alle prossime presidenziali, ammesso che sia nominato dal GOP candidato. "Le prossime elezioni presidenziali saranno importantissime. Perché si combatteranno due visioni opposte dell’America: da una parte quella che vuole far diventare l’America un società anti-religiosa, simile alla società burocratica e un po’ socialista dell’Europa; e dall’altra una visione dell’America fondata sul suo eccezionalismo e la sua storia” ha fieramente sferzato Gingrich in un suo comizio.

Ascoltando tutto questo dibattito, molto americano, noi italiani cio sentiamo un po’ coinvolti, e ci viene da pensare a quanto nel corso degli ultimi quindici anni, la magistratura italiana, tanto nella vicenda personale del presidente Silvio Berlusconi che nelle politiche dei suoi governi abbia frustrato la centralità del Parlamento ma soprattutto l’azione della branca esecutiva (si pensi solo a quanta poca fortuna ha avuto la fattispecie penale sulla permanenza illegale sul territorio nazionale, il cd. reato di clandestinità e quanto ostruzionismo tale legge ha incontrato nelle procure italiane).

Se Gingrich non fosse un cittadino statunitense, verrebbe una voglia d’importare in Italia l’uomo, con la sua facciona bonaria e determinata e fargli combattere la sua battaglia – che un tempo era di Silvio Berlusconi – anche nel nostro paese ormai debordante di magistrati prepotenti e irresponsabili.