Un grande applauso a…

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Un grande applauso a…

Un grande applauso a…

10 Aprile 2011

Di tutte le irritanti abitudini dello showbiz (e ce ne sono tante), ecco la peggiore, per noi. Ci si ripresenta a ogni festival, concorso, programma TV, concerto. “Un grande applauso a…”. E’ l’invito indiscreto del presentatore in studio o sul palco, a salutare un ingresso, un’uscita, una canzone. Ci sembra che in questo modo si svilisca il diritto più democratico del pubblico verso l’artista in scena, che è proprio l’applauso. Ma quello volontario.

Non capiamo il bisogno di questa sollecitazione sgarbata, da imbonitore, anche un po’ umiliante per tutti. I casi sono tre: o il presentatore non considera il suo pubblico abbastanza intelligente da decidere per conto proprio; o non considera se stesso abbastanza bravo da garantire con la sua presenza; o ha paura che per il suo ospite, se famoso, l’applauso risulti striminzito, se è un nessuno, inesistente.

Noi sosteniamo che il pubblico deve applaudire se e quando vuole, altrimenti niente. Anche perché l’applauso sollecitato si tradisce con il suo arrivare sempre un attimo dopo quello che sarebbe il momento giusto.

Poi c’è l’applauso che fa perdere il ritmo. Per esempio, a “Che tempo che fa”, trasmissione di Raitre che molto ci piace. L’ospite dice qualcosa di forte impatto sociale, o di protesta, oppure semplicemente intelligente (capita spesso agli invitati di Fazio, grazie al cielo), ed ecco che il pubblico, che potrebbe approvare o mugugnare, o reagire in altro modo, ma seguendo i suoi tempi naturali, scoppia in un applauso unisono e maldestro che sa di comandato, solo mani, non una risata, un fischio, troppo pulito per essere spontaneo, e anche un po’ troppo lungo; il quale applauso, proprio per il suo essere fuori tempo, disturba il fluire swingato della chiacchierata.

Anche il cantante che invita il pubblico a battere le mani sulla musica (quello che negli anni sessanta era “All together now!”) sa di loffio. Con questo trucchetto la gente si sente più partecipe, e alla fine è più facile passare dal battere a tempo all’applaudire.

Altro vezzo antipaticissimo. L’intervistatore si rivolge a Mario Rossi dandogli del lei o del tu, questo non ha importanza. Ma non gli chiede: “Cosa farai l’anno prossimo?” Oppure: “Che ne pensa lei del rock, o della lirica?”. Anzi, in tono spesso condiscendente, come stesse parlando a un mentecatto, se ne esce con un: “E che farà l’anno prossimo Mario Rossi?” oppure: “E cosa pensa Mario Rossi del rock, o della lirica?” Come se il Mario Rossi presente non fosse il vero Mario Rossi, ma un suo segretario incaricato di ascoltare e riferire.

Niente “Un grande applauso a…” all’Auditorium del Pontificio Istituto per la Musica Sacra, domenica 3 aprile alle diciannove. Concerto per clavicembalo. Si inaugura uno strumento ricostruito seguendo le indicazioni di Carlo Grimaldi da Messina, cembalaro del tardo seicento (costa quasi come una Porsche). Arriviamo all’Istituto, in pieno centro storico, attraversando Piazza Navona. Aria di vacanza. Caldo, ancora giorno, belle ragazze, turisti e pittori da bancarella. L’ingresso nella grande sala accademica non è una discesa nell’avello come potrebbe sembrare dall’atmosfera rarefatta. E’ l’entrata in un altro mondo, quello della musica classica di nicchia, l’esatto contrario di quanto abbiamo affrontato finora.

Anche questo mondo ha i suoi difetti (veniali perché crediamo che siano imputabili principalmente alla penuria di contanti), ma anche moltissimi pregi, tra cui, principale, quello di mantenere in vita la musica antica. Per esempio, è un peccato che negli spazi in cui si fanno i concerti, di solito sontuosi saloni rinascimentali o chiese barocche, prestati alle associazioni musicali, ricche di buone intenzioni ma non di quattrini (a questo si riferisce la nostra parentesi di poche righe fa) tutto avvenga in una sobria ma mortificante penombra.

C’è al massimo un’alogenina che illumina appena il leggio, precariamente collegata con una prolunga che serpeggia fra i piedi dell’esecutore a una lontanissima presa a muro, mentre il nobile organo sullo sfondo, o gli affreschi che coprono pareti e soffitti fluttuano evanescenti nelle tenebre. Eppure, e lo ripetiamo per la millesima volta, poche lampade piazzate con gusto (piccola spesa, grande risultato, data anche la presenza di una magnifica scenografia artistica naturale e gratuita) basterebbero a rendere l’atmosfera più allegra, e, credeteci, ascoltare Frescobaldi con una lieta illuminazione non fa perdere un briciolo della sua austera bellezza.

E poi, sempre presente e palpabile, c’è una certa ritrosia a vivere il concerto (soprattutto se viene suonata una rara mandola del dugento o una introvabile tromba marina) come un evento festoso, magari arricchito da una presentazione o spiegazione (questa volta c’era, e ben fatta), invece che come una specie di veglia funebre sullo strumento in via di estinzione.

Le luci sono, come abbiamo detto, fioche, gli esecutori preparatissimi ma permalosi e suscettibili al minimo rumore, il pubblico intimidito che quasi non osa tossire, figuriamoci manifestare entusiasmo. Noi, travolti dalla eccellenza del clavicembalista-collaudatore Pierre Hantai, alla fine abbiamo gridato due volte bravo, fulminati dalle occhiate dei presenti.

Ma continuiamo a pensare che in queste occasioni si può anche rischiare di divertirsi.

L’archivio del Cavalier Serpente, o meglio la covata di tutte le sue uova avvelenate, sta al caldo nel suo blog. Per andare a visitarlo basta un click su questo link: http://blog.libero.it/torossi