Un incontro di Magna Carta per discutere di testamento biologico
15 Giugno 2011
Autodeterminazione. Oggigiorno è tutta una questione deterministica che colpisce i fatti, i concetti, il livello semantico delle parole. Si lavora su queste ultime per deviarne l’emozione, per camuffarne la portata, l’essenza. Si toglie vita alle parole sottraendone il senso dalla percezione comune. E quando viene tolta vita alla parola “vita” può capitare di sentir chiamare interruzione o fine della vita l’eutanasia, il morire, la fine del corpo.
Allo stesso modo ci siamo abituati a parlare di testamento biologico realizzando un’altra alterazione semantica e sostanziale: il testamento nasce come atto mortis causa con il quale disporre dei propri averi per il periodo successivo alla morte, stante nel testatore la volontà e la capacita giuridica di disporre autonomamente dei beni e dei diritti che rientrano nella sua titolarità. Ma è la vita un bene così assimilabile a quelli materiali da poter essere oggetto di un “testamento”? E’ davvero questo il messaggio che si vuole lanciare? E l’aggettivo biologico serve soltanto ad indicare l’ambito di competenza o serve a stemperare la componente meccanicistica e formalistica di questo atto rispetto al tema della vita?
L’eutanasia – letteralmente, la “bella morte” – viene elogiata come il rimedio al nulla, ad una vita che si ritiene non valga più la pena di essere vissuta. La si considera l’evoluzione compartecipativa tra l’etica e la tecnica, come se fossero impersonali e non il frutto di mani, menti e cuori umani. Nella babilonia dei neologismi e dei tecnicismi si cerca, quindi, di focalizzare l’attenzione sulla necessità di indagare la portata del diritto alla vita come indisponibile, inviolabile, fondamento a priori di qualsiasi convenzione sociale, principio che accomuna tutti perché laico e radicato in quel diritto naturale che ci fa soggiacere a un comandamento più alto, metafisico, intrinseco.
Proprio questa inviolabilità del diritto alla vita, che ne fa un tema spinoso che smuove le coscienze, ha portato il legislatore a non intervenire per lungo tempo sull’argomento; ma i recenti casi di cronaca, come la drammatica storia di Eluana Englaro, hanno smosso in chi fa le leggi un senso di responsabilità. Lo stesso per cui ci si è resi conto dell’urgenza di legiferare sull’argomento, traslando dalla sfera privata a quella pubblica un tema così delicato e complesso, nel tentativo di sottrarlo all’arbitrio degli orientamenti giurisprudenziali e alla incerta specificità di ciascun caso concreto.
Ecco che il disegno di legge Calabrò – che sarà oggetto di dibattito nel convegno promosso da Magna Carta Puglia che si terrà il prossimo venerdì 17 giugno, alla presenza dello stesso Senatore Calabrò e del vice presidente dei senatori del Pdl, nonché presidente onorario di Magna Carta, Gaetano Quagliariello – cerca di dissipare la nube caotica creatasi sull’argomento ponendo le basi per una chiarificazione e semplificazione concettuale, terminologica e anche e soprattutto etica, e cercando, al tempo stesso, di operare nel rispetto dei principi cattolici e naturali, la cui analisi si impone nella trattazione dell’argomento. Il tutto auspicando che le forze politiche presenti in Parlamento si muovano omogenee nella disciplina di un tema così sopra le parti da non poter essere oggetto di faziosità. Capire quale significato attribuire all’art 32 comma II Cost., scovare la linea sottile che separa l’alleanza tra medico e paziente e la dignità umana dall’accanimento terapeutico e dall’eutanasia passiva. Questi gli obiettivi di fondo dell’incontro, che vuole rappresentare un momento di riflessione su un tema di forte attualità sociale e politica.
Sì all’autodeterminazione nelle dichiarazioni anticipate di trattamento per sfuggire a qualsiasi arbitrario accanimento; sì a una contestualizzazione temporale delle volontà espresse ora per allora, il cui contenuto deve poter essere rivisto e contraddetto. Sì all’importanza dell’alleanza terapeutica tra due uomini, prima che tra due ruoli imposti dal destino, e alla salvaguardia della dignità umana e della pietà nel suo senso teologico e non commiserativo; sì, dunque, alla decisione di sottrarre l’idratazione e l’alimentazione dalle materie disponibili nella DAT, in quanto priverebbero qualsiasi malato della sua dimensione umana.
Coscienza, vita, speranza, regole si confondono creando caos mediatico, giurisprudenziale, concettuale. Questo è ciò che accade fuori. Dentro, nelle stanze dei malati, c’è il silenzio e qualcuno come Davide Rondoni che ci racconta di come un corpo continui a esistere per salvaguardare un’anima ancora vivente, di come l’animo di uno spettatore passivo diventi lo specchio che immagazzina immagini e esperienze che poco hanno in comune con le diatribe. Anche un corpo immobile parla, basta solo ascoltarlo evitando di farsi distrarre dal clamore che lo circonda.