Un iraniano a Roma. Ecco perché in Italia il “movimento” non decolla più

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Un iraniano a Roma. Ecco perché in Italia il “movimento” non decolla più

23 Dicembre 2010

C’era anche un ricercatore universitario fra gli “avanguardisti” che la settimana scorsa erano accanto a Manuel De Santis, il "precario" che ha colpito un ragazzo quindicenne con un casco. Il ricercatore si chiama Omar Firouzi, è iraniano e vive da lunghi anni a Padova, dove si è laureato diventando uno dei leader del collettivo della facoltà di Scienze politiche. Firouzi è una vecchia conoscenza della magistratura italiana: si è beccato 10 mesi per resistenza dopo i fatti di Genova 2001, sfuggendo a una condanna ben più pesante di 6 anni per devastazione e saccheggio.

Vogliamo parlare di lui non per stigmatizzare il suo comportamento – se crede che il “riot” sia la migliore delle forme di lotta possibili per cambiare l’università è libero di farlo, assumendosene, sia chiaro, tutte le responsabilità – ma per riflettere su uno dei principali punti deboli dell’odierno movimento studentesco, che ieri, in quella che doveva essere “la grande manifestazione” di Roma, ha raccolto solo qualche migliaio di persone.

Per giorni i portavoce dei collettivi, spalleggiati dai politici amici, hanno denunciato la “repressione cilena” della polizia italiana, non riuscendo a guardare oltre “l’impero del male” berlusconiano e incapaci di ragionare su quel che accade nel resto del mondo. Per la sua storia personale, i suoi studi, le sue origini, la condizione di immigrato, Firouzi sarebbe stato perfetto per internazionalizzare e sprovincializzare il movimento, stabilendo una (benvenuta) connessione fra chi sale sui tetti italiani e "l’onda verde" che si oppone ad Ahmadinejad.

Ma Firouzi è organico a quei nostalgici gruppettari del leninismo, asserragliati nelle università e nei cortei italiani, convinti che il nemico sia il ministro Gelmini (vagli a spiegare che il testo di legge discusso in queste ore al Senato dovrà passare le forche caudine dei decreti attuativi…) e che trascurano ogni altra questione o parola d’ordine che gli permetta di costruire nuove e originali forme di lotta.

A Firouzi però è riuscito un vero e proprio colpo da maestro: paragonare quel che avviene a Teheran, i morti, i processi di massa, la rielezione tarocca di Ahmadinejad, con i “tonfa” della polizia italiana, gli arresti e i fermi preventivi nella galassia dell’antagonismo, il voto di fiducia al governo Berlusconi.

Tornato nella capitale iraniana dopo la condanna del G8, Firouzi rilascia un’intervista reperibile su Internet in cui spiega di aver assistito “alle mobilitazioni in un Paese che non si definisce democrazia completa,” l’Iran, “che per alcuni aspetti mi fa pensare a delle similitudini con l’Italia”. Dietro l’indignazione di prammatica per l’uccisione della povera Neda, in un altro articolo del 2009, sottolinea che “nei cori durante i cortei, nei volantini che girano sul web e nelle semplici discussioni di strada non c’è quasi mai la traccia di una volontà di rompere i pilastri dell’attuale forma della repubblica islamica, e questo sia perché attualmente non esiste un’alternativa immaginabile, sia perché molti credono realmente che l’attuale quadro generale possa comunque garantire innovazioni sociali e politiche anche molto radicali”.

Convinto che in Italia ci sia solo “una democrazia formale”, Firouzi ritiene che il khomeinismo sia in qualche modo riformabile, a differenza del berlusconismo. Eppure ha sperimentato sulla sua pelle le garanzie della giustizia italiana, là dove in Iran il presidente Ahmadinejad manda la polizia religiosa nelle università e fa randellare gli studenti dalle milizie in motocicletta. Il radicalismo antagonista a corrente alterna di Firouzi, insomma, è un buon viatico per comprendere i limiti, le contraddizioni e la mancanza di un quadro generale di riferimento del movimento studentesco nell’Italia di oggi.

In Iran, Firouzi si accontenta di avere una “sponda” nel leader Mousavi, un personaggio politico che nonostante abbia sponsorizzato l’onda verde fa comunque parte di quella nomenclatura cresciuta dopo la Rivoluzione khomeinista che ha prodotto uomini alla Ahmadinejad. L’impressione è che per il ricercatore padovano un evento come la Rivoluzione iraniana del ’79 non sia poi così detestabile, visto che “nelle lunghe notti di agitazione sociale nei quartieri di Teheran”, dopo la rielezione di Ahmadinejad, “si potevano incontrare molti cinquantenni protagonisti di quell’epoca”.

La verità è che per molti comunisti iraniani (e italiani) il khomeinismo e la jihad rappresentano un buon “compagno di strada” nella lotta contro la globalizzazione capitalista. L’ignavia dimostrata verso l’autoritarismo e la mancanza di libertà dei regimi islamici li rende del tutto inadeguati a ripensare, seriamente, quello che un tempo fu il movimento studentesco nel nostro Paese.