Un lettore ci spiega: “l’appello di Repubblica è una rottura della Costituzione”

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Un lettore ci spiega: “l’appello di Repubblica è una rottura della Costituzione”

25 Settembre 2009

Qualche giorno fa, tra i commenti dei lettori, ho trovato questo intervervento firmato Alessandro Aranda. L’ho letto e mi è parso subito molto interessante, sicuramente ardito, per certi versi paradossale, ma con molte e forti ragioni. Per questo mi è sembrato opportuno farlo emergere dalla zona dei commenti e portarlo in prima pagina. Sono sicuro che non resterà lettera morta…

(g.l.)

 

 

L’ appello dei “tre giuristi” – Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Franco Cordero – apparso sulle pagine de “La Repubblica” il 31 Agosto, nasconde una critica che punta diretta a provocare una aperta e consapevole crisi politica del Paese.

Qui di seguito, pertanto, tenterò di dimostrare che ciò che le tesi (apparentemente) neutrali e tecniche disseminate nel j’accuse di fine estate esprimono, è il consapevole e preordinato tentativo di rifondazione della Costituzione – ossia dell’unità politica del Paese – in chiave neo-illuminista e democratica.

Mi propongo, perciò:

1) di indagare e scavare nel breve testo dell’appello, per metterne in luce i tre concetti-chiave;

2) di mostrare come tali concetti risalgano, in ultima istanza, all’ideologia e alla retorica dell’universalismo, neoilluminista e democratico;

3) di identificare il fine politico di tale richiamo, nell’attuale situazione costituzionale italiana.

L’appello si divide in tre parti, costruite sui tre presupposti fondamentali dell’ universalismo: verità, ragione, progresso.

Parte prima: la Verità [1].

La citazione di Berlusconi costituisce un tentativo di ridurre al silenzio la stampa in quanto le domande poste al Presidente del Consiglio sono “domande vere”. Il solo modo che deve essere consentito al Presidente del Consiglio per sfuggirvi, è rispondere ad esse. A tale tesi non soltanto potrebbe replicarsi, come ben è stato fatto in questi giorni, che non si tratta affatto di domande vere, ma di veri e propri insulti [ 2 ]. Anche, infatti, ammettendone la nuda verità, sotto il profilo civilistico l’affermazione resterebbe profondamente scorretta: la giurisprudenza civile ha, infatti, cristallizzato una serie di canoni restrittivi della cd. exceptio veritatis, consolidandosi nel senso di ritenere che la lesione della reputazione e dell’onore possa concretarsi anche nella notizia di un fatto vero, ma esposto secondo modalità (cd. requisito della forma civile o continenza [ 3 ] ) lesive dei diritti soggettivi della persona. Ma non si tratta, con tutta evidenza, di un argomento civilistico, bensì di una massima iper-illuminista: la Verità (morale) obbliga il potere politico alla risposta. Il potere può, infatti, essere anche abile nel sottrarsi e nell’eludere i meccanismi politici (convenzionali e artificiali) costruiti per limitarlo e bilanciarlo (come i rapporti parlamento-governo), ma non può mai sottrarsi alla Verità (naturale e universale), alla superiorità della morale sulla politica. Il detentore del potere politico può forse violare un compromesso con l’opposizione, può manovrare le meccaniche parlamentari attraverso l’uso della fiducia o la reiterazione dei decreti legge, ma si arresta alla richiesta di Verità che la società domanda.

Secondo movimento: la Ragione Universale [ 4 ].

Con astuzia, il diritto di stampa e libera manifestazione del pensiero non viene rivendicato in nome dell’art. 21 della Costituzione italiana, bensì fondato sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. L’appello non è alla Costituzione, perchè, altrimenti, si dovrebbe riconoscere che il fondamento ultimo del diritto alla libera stampa risiede in una decisione sull’unità politica, l’ordine e la sicurezza pubblica del Paese (e, giuridicamente, resterebbe, in ogni caso, suscettibile di bilanciamento con gli altri diritti costituzionali). L’appello è, invece, all’Umanità, all’universalismo dei diritti, sovrastatale. Esso non ammette bilanciamento con esigenze dettate dalla salus rei publicae, perchè si afferma al di sopra delle stesse, le annichilisce in nome di un diritto universale fondato sulla morale.

Terzo movimento: il Progresso (e l’elitè illuminata) [ 5 ].

L’ “incubo dei pochi illuminati”, come lo chiamava Zolla, appare nella chiusa dell’appello. Il compito del diritto è il progresso, è l’illuminazione della società, il suo condurla verso la felicità. Ma soltanto alcuni sono in grado di far da guida, mentre nella società nidificano giuristi che sono disposti a vendersi al potere politico, prestando la loro attività per dar forma giuridica ai suoi abusi. Cosa significa tutto questo? Non voglio discutere la validità teoretica delle tesi esposte dai tre giuristi (altri ci hanno già messo bene in guardia dalla “retorica dell’universale” [ 6 ] ), bensì affondare le dita nel senso politico della loro manovra.

L’appello è un tipico manifesto che importa nel nostro Paese la “retorica” dei diritti universali sorta nel Dopoguerra, sulle ceneri della distruzione dell’Europa. Combinandosi con il processo di costituzionalizzazione democratica degli Stati europei, essa ha tentato di giungere là dove l’ Illuminismo e la sua rivoluzione non era riuscito ad addivenire: alla riduzione assoluta del potere “politico” (del gubernaculum) alla giurisdizione dei diritti (iurisdictio). L’Europa si è trovata, così, di fronte ad un nuovo principio di legittimazione della società contemporanea: i diritti come universali, moralmente vincolanti, guida e unico giudice dell’umanità intera. La grande torsione del costituzionalismo del post-1945 risiede, così, nella creazione di una super-legalità morale e universale che si proclama “neutrale” rispetto ad ogni aspetto “politico”. Ma ciò significa che i diritti soggettivi sono costruiti non in chiave di “limitazione” del potere politico, ma in chiave di annichilimento dello stesso. La super-legalità non costituisce una soluzione a quel problema costituzionale moderno (proprio del XIX secolo) della regolamentazione del dualismo di Stato e società, bensì ha per scopo proprio la neutralizzazione di questo dualismo attraverso la giurisdizionalizzazione-moralizzazione della politica. L’idea è semplice: il potere politico deve essere annichilito, e sparire all’interno di un sistema esclusivamente giurisdizionale di tutela dei diritti, il cui fondamento ultimo non è politico (ossia legato all’organizzazione della comunità), ma morale. Che detta manovra abbia una specifica connotazione ideologica, credo sia evidente a tutti: la moralizzazione della politica nasconde, infatti, la politicizzazione totale della società, come bene ha messo in luce Reinhart Koselleck. In altri termini, l’universalismo nasconde dietro l’anonimità politica, scelte ideologico-politiche nette: il Tribunale della morale razionale e universale è un tribunale politico. Nel momento, infatti, in cui tutte l’azione politica (che è per definizione amorale, poiché si fonda sulla neutralizzazione della coscienza) deve essere sottoposta al vaglio della morale democratica, essa non potrà, già in partenza, che essere dalla parte del torto. Giudicando e condannando continuamente la politica, la morale si rende politica. Attraverso la critica democratica, il centro del potere politico (poiché una certa quantità di potere deve sempre esserci, in mano a qualcuno, in una comunità, “con un nome o un altro”, come ben vedeva Edmund Burke), ma moralizzato (quindi nascosto e mascherato dietro l’etichetta di libertà e diritti soggettivi) passerà nelle mani di una elité “illuminata” (appoggiata al potere giudiziario). L’interpretazione della Costituzione diventa, in tal senso, lo spazio di manovra dell’ideologia neo-illuministica, in quanto è lì che si possono far coincidere i diritti soggettivi “fondamentali” con i principi morali, e far così della società (ossia: di una elité democratica della società) il custode, attraverso i suoi tribunali, del diritto e della morale. Non è, allora, casuale che i tre giuristi che, oggi, firmano l’appello, rappresentino i tre più influenti e prestigiosi sostenitori di detta ideologia nei tre “luoghi” privilegiati del diritto (la Costituzione, il diritto civile, il diritto penale). L’opera di Zagrebelsky (non solo accademica, ma anche, più causticamente, giornalistica) ha introdotto il cavallo di Troia del neo-costituzionalismo nella dottrina italiana: la Costituzione non è una decisione fondamentale sull’organizzazione pubblica, ma una tavola di valori. Rodotà, ha sostenuto la strada dell’applicazione diretta della Costituzione nei rapporti privati, con giri di valzer sul caso Englaro dalle pagine, ancora, de “La Repubblica”, dalle quali ha insistito sulla legittimità, da parte del potere giudiziario, di “dichiarare” il diritto nascosto nella trama della Costituzione, ricavando dai suoi “principi”, le regole da applicare, pur in presenza di una palese lacuna legislativa. Le posizioni di Cordero, infine, sono fin troppo note (in parte a causa anche della sua indiscutibile abilità letteraria). Ma non è scopo di questo intervento indagare le posizioni dei singoli autori, discuterne le personali inclinazioni politico-ideologiche, criticarne carattere e, tantomeno, dignità intellettuale. Il reale punto di rottura che l’appello dei “tre giuristi” rappresenta è ben più profondo: l’ “ideologia della difesa della Costituzione”, quella posizione elaborata e portata avanti a suo tempo in ambito democristiano-progressista sotto Leopoldo Elia (che fu maestro di Zagrebelsky) e Oscar Luigi Scalfaro, ha mosso un altro dei suoi passi, forse il definitivo. La biografia intellettuale di Elia è, in tal senso, emblematica del rovesciamento delle relazioni tra iurisdictio e gubernaculum. Erede della scuola antiformalista degli anni Trenta, allievo di Mortati, Elia, a partire dagli anni ‘80, iniziò a ripensare alla centralità dell’elemento del “politico” come fondamento della Costituzione, sino a pervenire, nel biennio di crisi politica 1992-1993, a quella “scienza militante” [ 7 ] di difesa della Costituzione che, di fronte alla scomparsa delle forze politiche fondatrici, doveva ora far perno sul ruolo della giurisprudenza costituzionale, con particolare riferimento alla sua attività creativa-dichiarativa dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale. La giurisdizionalizzazione morale della politica, attraverso l’interpretazione della Costituzione, non è, in tal senso, nuova: già nel 1992, Galli della Loggia e Leopoldo Elia duettarono in polemica su “Il corriere della sera” [ 8 ], e così anche nel 2008, anno della morte del giurista [ 9 ]. Zagrebelsky ha raccolto la linea democratica di Elia, ma, questa volta, non vi sono stati scambi polemici (l’intelligente articolo di Dino Cofrancesco, Analizzare la retorica di Zagrebelsky e scoprire che è un po’ fascista, ha trovato spazio solo su “L’Occidentale”, 26 luglio 2008. Tempi già cambiati, in soli due mesi?). I tempi sono, forse, maturi, per un rovesciamento della Costituzione? Certamente lo sono per gli ideologi del neo-illuminismo democratico: il caso Englaro, il caso D’Addario, la polemica tra Feltri e Boffo, le dichiarazioni di Fini alla festa del PD, stanno puntando il dito della coscienza morale della società contro il potere politico, contro Berlusconi e la sua, incompleta, frammentata e mai promulgata Costituzione del dopo 1989. Il lascito di Leopoldo Elia sembra, qui, ritornare: patriottismo costituzionale fondato su un’etica laica di ispirazione cristiana, che fa perno sui diritti fondamentali della persona [ 10 ], la cui custodia è affidata alla giurisdizione. Ma, forse, i tempi, sono maturi anche per Berlusconi, il quale è, come suo solito, del tutto inconsapevole della Storia, del tutto impreparato a reagire. La sua citazione in giudizio è stato, infatti, uno degli atti più incoscienti della sua storia politica. La Repubblica ha giocato la carta dell’attacco fondato sulla soggezione del potere politico ai diritti soggettivi e alla morale della società. Berlusconi, per rispondere, avrebbe dovuto opporre l’autonomia del potere politico rispetto alle faccende di cuore, agli scrupoli di coscienza della società: avrebbe dovuto mostrare che il potere politico ha le sue regole proprie, la sua ragion pubblica, il suo campo costruito proprio a partire da una netta separazione dalla morale e dalla coscienza personale di ciascuno. Doveva disporre, con un decreto-legge, l’immediata chiusura del giornale, a difesa della Costituzione. Invece, è caduto nella trappola: ha replicato con una citazione in giudizio, domandando, cioè, al potere giudiziario la tutela dei propri diritti soggettivi (onore e reputazione). In altri termini, ha posto il potere politico proprio sul piano entro il quale la società voleva venisse a farsi giudicare. E, con ciò, ha giù perduto la partita, perché, indipendentemente dalla sentenza che burocraticamente definirà il giudizio, egli, in quanto rappresentante il potere politico, ha già avuto torto. Berlusconi non capisce la democrazia: se non ne coglie le virtù, non ne comprende neppure i vizi. È per tale ragione che la moralizzazione della politica gli sarà fatale: si circonda di avvocati, chiede di essere difeso, chiede giustizia, ma non comprende che, di fronte ad un attacco politico mascherato moralisticamente da tutela dei diritti, l’errore più grande del politico è proprio quello di chiedere giustizia. La giustizia, a quel punto, non avrà che da giudicarlo.

Note sulla carta stampata:

[1] S. Rodotà – G. Zagrebelsky – F. Cordero, L’appello dei tre giuristi. Vuole ridurre i giornali al silenzio, in «La Repubblica», 29 Agosto 2009, p. 1: “L’attacco a “Repubblica”, di cui la citazione in giudizio per diffamazione è solo l’ultimo episodio, è interpretabile soltanto come un tentativo di ridurre al silenzio la libera stampa, di anestetizzare l’opinione pubblica, di isolarci dalla circolazione internazionale delle informazioni, in definitiva di fare del nostro Paese un’eccezione della democrazia. Le domande poste al Presidente del Consiglio sono domande vere, che hanno suscitato interesse non solo in Italia ma nella stampa di tutto il mondo. Se le si considera “retoriche”, perché suggerirebbero risposte non gradite a colui al quale sono rivolte, c’è un solo, facile, modo per smontarle: non tacitare chi le fa, ma rispondere”.

[2] Cfr. U. Silva, Lettera ai moralisti, in «Il Foglio», 4 settembre 2009: “(…) non posso sottoscrivere un documento dove mi si chiede di dire che la pera è una mela”.

[3] La lezione fu impartita sin dalla storica sentenza cd. del decalogo dei giornalisti (Cass., 18 ottobre 1984, n. 5259), nella quale si legge che requisito indispensabile per la legittimità del diritto di stampa è la forma “civile” della esposizione dei fatti e della loro valutazione, ” (…) cioè non eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire, improntata a serena obiettività almeno nel senso di escludere il preconcetto intento denigratorio e, comunque, in ogni caso rispettosa di quel minimo di dignità cui ha sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, sì da non essere mai consentita l’offesa triviale o irridente i più umani sentimenti”.

[4] S. Rodotà – G. Zagrebelsky – F. Cordero, cit.: “Invece, si batte la strada dell’intimidazione di chi esercita il diritto-dovere di “cercare, ricevere e diffondere con qualsiasi mezzo di espressione, senza considerazioni di frontiere, le informazioni e le idee”, come vuole la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, approvata dal consesso delle Nazioni quando era vivo il ricordo della degenerazione dell’informazione in propaganda, sotto i regimi illiberali e antidemocratici del secolo scorso”.

[5] S. Rodotà – G. Zagrebelsky – F. Cordero, cit.: “Stupisce e preoccupa che queste iniziative non siano non solo stigmatizzate concordemente, ma nemmeno riferite, dagli organi d’informazione e che vi siano giuristi disposti a dare loro forma giuridica, senza considerare il danno che ne viene alla stessa serietà e credibilità del diritto”.

[6] Non avendo intenzione di discutere in questa sede l’aspetto teorico delle posizioni riconducibili all’area dell’universalismo democratico (per intenderci, tra i tanti autori la cui opera, sebbene da diverse prospettive filosofiche, può ricondursi a tale orientamento: Habermas, Dworkin, Bobbio, Ferrajoli), rinvio, per una discussione critica, a E. Castrucci, Retorica dell’universale. Una critica ad Habermas, in «Filosofia politica», 1/2001, pp. 121-140; D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Torino, Einaudi, 2000.

[7] Cfr. G. Zagrebelsky, Lo scienziato che ha servito la Costituzione, in «La Repubblica», 7 ottobre 2008: “La Costituzione è un oggetto di studio molto particolare: essa è fatta di valori e principi che richiedono adesione, non di fatti morti che possono essere oggetto di conoscenza meramente passiva. La scienza del diritto costituzionale è scienza militante”. Un breve ma incisivo profilo della biografia intellettuale di Elia si trova in F. Lanchester, Il legato di Leopoldo Elia, in «Federalismi.it», settembre 2008;

[8] E. Galli Della Loggia, Le sirene dei giudici, in «Il Corriere della sera», 5 dicembre 1992; L. Elia, Se il giudice passa alla politica, in «Il Corriere della sera», 12 dicembre 1992.

[9] E. Galli Della Loggia, La ribellione delle masse, in «Il Corriere della sera», 3 maggio 2008; L. Elia, Difendere la Costituzione non è un’ideologia, in «Il Corriere della sera», 9 maggio 2008. A proposito di questo dibattito, rinvio all’articolo di D. Cofrancesco, Quando la Costituzione diventa un’ideologia, in «L’Occidentale», 14 Giugno 2008.

[10] Evitando di citare le prese di posizioni esplicitamente di taglio politico, faccio riferimento al più (apparentemente) tecnico intervento di L. Elia, Valori, laicità, identità, in «Costituzionalismo.it», fascicolo 1/2007: “…mi pare possibile ricollegare i diritti umani ai principi supremi che si traggono dalla dichiarazione dei diritti contenuti nella Costituzione italiana e nella Legge Fondamentale tedesca; in particolare è necessario approfondire le conseguenze delle proposizioni normative sulla dignità della persona, tenendo conto degli aspetti problematici e della pluralità di esigenze che non potevano essere considerati dai padri costituenti. Un ruolo rilevante in questa ricerca di individuazione può essere svolto dalla giurisprudenza delle Corti costituzionali che, pur rinunziando ad una critica pregiudiziale alla modernità, sappia difendere il soggetto dagli abusi delle prassi di mercato”.

Alessandro Aranda