
“Un nuovo Rinascimento per il mondo del lavoro (con un occhio alle startup)”. Intervista a Salvatore Santangelo

04 Maggio 2020
“Tornare a progettare il nostro domani. È ora di farlo: come dopo la peste nera ci fu il Rinascimento, quando le classi dirigenti smisero di pensare secondo la mera logica aristotelica/tomista e adottarono un nuovo modello di elaborazione del futuro”. Salvatore Santangelo non ha dubbi: dopo la pandemia, per il mondo del lavoro si possono aprire nuove strade. Lo abbiamo intervistato proprio su questo tema.
Santangelo, quali saranno, secondo lei, i principali cambiamenti nel mondo del lavoro per fronteggiare l’emergenza Covid19?
Se volessimo assecondare una certa moda, la risposta potrebbe essere condensata in alcuni slogan che ormai hanno saturato il dibattito pubblico – smart working, remote working, home job – ma che, senza un’adeguata riflessione, rischiano di rimanere appunto delle vuote parole d’ordine che tra l’altro rendono sterili il dibattito e l’analisi. A questo punto vale la pena di ricordare che le società industrializzate si sono fondate, non senza contraddizioni e traumi, su un insieme di patti sociali, in grado di fornire benessere, stabilità, sicurezza per la gran parte degli individui coinvolti. Dalle regole salariali a quelle democratiche, da quelle sul welfare a quelle sulla competizione e sull’azione dei mercati in condizione di concorrenza. Le nostre istituzioni dunque non sono altro che il prodotto di questi molteplici patti sociali. Ogni patto sociale, d’altra parte, incorpora un equilibrio più o meno stabile tra costi e benefici: un compromesso in cui vengono opportunamente distribuiti vantaggi e svantaggi degli equilibri raggiunti. Fatte queste doverose premesse, dobbiamo renderci conto che proprio questo è il momento di immettere profondi elementi di novità nel dibattito pubblico sulle tematiche del lavoro e delle relazioni industriali per disinnescare sul nascere la spirale conflittuale che rischia di esplodere sullo sfondo dell’emergenza generata dal Covid19. È ora di prendere atto che – superato il modello della concertazione degli anni Ottanta e Novanta – non è più rinviabile sciogliere il nodo della riforma strutturale del mondo del lavoro; riforma che deve essere affrontata sia considerando come centrale il valore della coesione sociale, sia riaffermando le esigenze della modernizzazione. Proprio in questo percorso, e ancor più in questa fase così delicata, è necessario essere capaci di mantenere il clima di dialogo, attraverso un processo di coinvolgimento e di responsabilizzazione delle Regioni (arrestando le spinte centrifughe in atto), del sistema delle autonomie locali e di tutte le parti sociali, per portare a compimento al più presto e senza strappi questo necessario percorso di trasformazione. Sono sempre più convinto, e la Germania lo dimostra, che usciremo (più forti) dalla crisi solo grazie a un nuovo modello di Economia sociale di mercato, dove il mondo del lavoro sia ancorato al sistema sociale, e proprio in questo momento in cui il “lavoro” è più minacciato, l’obiettivo non deve essere solo quello di preservarlo, ma di “rilanciare”, per dare alle persone quella che, seguendo la grande lezione di Marco Biagi, sia «un’occupazione di qualità che concili quel grande aspetto della vita umana» che è il lavoro stesso, con altre realtà ugualmente importanti: la vita familiare e quella personale. E senza questa chiara traiettoria, gli slogan che abbiamo evocano non farebbero altro che aumentare la dimensione della frammentazione, dello spaesamento e dell’alienazione sociale che rappresentano il lato oscuro della cosiddetta geek economy.
L’attuale legislazione italiana è in grado di rispondere a quelle che sono le necessità di imprese e lavoratori?
Partendo da queste considerazioni, si possono avanzare alcune proposte di riforma del mondo del lavoro che introducano sì la flessibilità, anche dolorosa e contemperata alla congiuntura, ma in un contesto di condivisione comunitaria di scelte, rischi e risultati. La strada maestra per riuscire a conciliare queste due esigenze è senza dubbio quella della Partecipazione dei lavoratori alla gestione e all’utile dell’impresa (elemento cardine del già richiamato sistema tedesco) e finalmente l’attuazione dell’art. 46 della nostra Costituzione che ciò prevede: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende».
Esiste nel mondo delle imprese un modello da seguire per uscire da questa crisi?
Anche qui va fatta una premessa: mercati e concorrenza non sono altro che insieme di regole che tentano di coniugare efficienza e buon funzionamento delle economie, in un quadro di “contabilità” sociali, politiche e morali. Ciascuno di questi compromessi al suo formarsi definisce una matrice di costi e benefici, di inclusione-esclusione, che è anche strettamente condizionata dai livelli tecnologici e dalla loro diffusione, come elementi fondamentali delle nuove metriche della produttività. Anzi, lo stesso progresso tecnologico deve essere visto come un processo sociale e in questo senso occorre sottolineare come contratti e modelli organizzativi – negli ultimi 30 anni – non sono stati al passo della tecnologia. Alla luce di queste considerazioni, i due sistemi che hanno saputo meglio incorporare queste dinamiche e che hanno dimostrato la propria resilienza di fronte alle sfide della globalizzazione e della delocalizzazione (e che quindi possiamo immaginare come in grado di reagire meglio nel contesto post Covid) sono il modello tedesco e quello giapponese. Quello tedesco incorpora i migliori schemi di partecipazione che a loro volta sono affiancati da efficienti reti di sicurezza attiva, gestite congiuntamente da lavoratori e imprese, lasciando allo Stato un welfare di garanzia per quegli individui che o non sono ancora entrati nel mercato del lavoro, o che per qualsiasi motivo il lavoro l’abbiano perso. Grazie allo strumento dell’apprendistato, l’ingresso nel mondo del lavoro non è “una prova del fuoco”, ma anzi un consapevole percorso di scelte; allo stesso modo i distacchi e le uscite sono gestiti in modo meno traumatico e con minore conflittualità sociale. La partecipazione dei lavoratori è anche un progressivo processo di conoscenza e di maturazione. Il lavoratore passa da una condizione di sottomissione all’impresa a una condizione di coinvolgimento responsabile nella codeterminazione delle strategie. Per quanto riguarda invece, la dimensione della “Qualità totale” della Toyota Way, proprio il Giappone ci insegna che questa comporta l’immissione, nell’organizzazione aziendale (e nell’architettura politico/istituzionale che la sostiene) di gerarchie adattative, di una visione in grado di porre l’enfasi sul lavoro di squadra, di un controllo di gestione focalizzato su sistemi e tecniche in grado di misurare in modo innovativo i parametri di successo e quindi di realizzare un costante miglioramento dei compiti e dei processi. Chiaramente questi due modelli sono profondamenti distanti, anzi collidono con tutto ciò che ingessa il sistema italiano: la tradizionale prassi salariare, il salario fisso, gli aggiustamenti sul numero di occupati, il controllo esterno; modalità di retribuzione e organizzazione del lavoro assolutamente inadeguati per le attuali esigenze della produzione. Oltre alla proposta legge di attuazione costituzionale già richiamata, un grimaldello potrebbe essere la contrattazione di secondo livello: dalla sensibilità contrattuale “micro” agli schemi di partecipazione si giunge inevitabilmente, per aggregazioni successive, con l’approdare all’equilibrio macroeconomico.
Come si potrà risolvere a suo avviso il problema della liquidità per famiglie e aziende?
La tua domanda è particolarmente ampia e sfidante. Nella risposta mi soffermerò su quello che conosco meglio: l’economia dell’innovazione. Fra qualche giorno il motore produttivo dell’Italia si riaccenderà e le imprese avranno bisogno di enormi iniezioni di liquidità per riaffrontare la sfida dei mercati internazionali e resistere alle forti tensioni a cui saranno sottoposte. È necessario che proprio le imprese italiane più innovative, quelle che conservano scrupolosamente un bagaglio di conoscenze e competenze frutto di anni di ricerca e sviluppo e di investimenti in capitale umano, ottengano il più rapidamente possibile i vantaggi fiscali che meritano ai sensi della normativa sul Patent Box. Come poter fare? Una soluzione interessante è quella messo a fuoco da due avvocati con grande esperienza in questo campo: Alberto Improda e Francesco Rizzo che hanno finalizzato tre misure che potrebbero davvero velocizzare l’accesso ai vantaggi fiscali per numerose piccole e medie imprese italiane, garantendo così ad aziende che hanno fatto dell’innovazione, della ricerca, delle conoscenze il loro mantra, una vitale iniezione di liquidità. Nello specifico, la loro proposta che sposo in pieno e che grazie a questa intervista spero possa entrare nei radar dei decisori politici, nel dettagli prevede: 1) l’eliminazione della diluizione triennale del vantaggio fiscale prevista dal Decreto Crescita per quelle Aziende che scelgono di avvalersi della procedura di Patent Box senza ruling, incentivandone così l’utilizzo per liberare gli uffici dalle nuove pratiche, permettendo una rapida chiusura di tutte le domande pendenti; 2) la possibilità di sospendere immediatamente il pagamento di una parte delle imposte in attesa della sottoscrizione dell’accordo con l’Agenzia delle Entrate: l’erario potrebbe essere garantito rispetto all’effettiva erogazione delle suddette somme (nel caso di mancato accordo in sede di ruling o di diverso calcolo del vantaggio fiscale) mediante il rilascio da parte dell’Azienda di idonea fideiussione bancaria (sul modello di quanto accade con i rimborsi IVA); 3) aumentare il vantaggio fiscale (portandolo, per esempio, al 90% come nel caso di cessione del bene intangibile) per le imprese che detengano i propri beni intangibili in regime di open innovation, magari favorendo quelli relativi ad asset strategici per la ripresa come la sanità, la farmaceutica, la logistica, l’IoT, lo smart-working. In questo modo la normativa sul Patent Box farebbe un passo ulteriore e ciò permetterebbe di cogliere il buono di quanto sta accadendo in questa emergenza, con aziende e start-up che collaborano fattivamente alla produzione di prodotti innovativi per garantire il ritorno alla normalità. Sullo sfondo, la non più rinnovabile innovazione dei sistemi di tassazione. Innovazione che dovrebbe rispondere a questa domanda fondamentale: la ricchezza delle imprese oggi è legata più alla sua forza lavoro o alla capacità di creare valore aggiunto attraverso le sue reti e infrastrutture digitali? Bill Gates ne parla da anni, inascoltato.
Se avesse modo di suggerire una strada al mondo politico oggi impegnato a fronteggiare la crisi, cosa direbbe?
Non potrei non ricordare a loro e a noi che la politica gioca un ruolo cruciale: essa nasce appunto per dare risposte concrete, evitare l’esplosione dei conflitti e per sanare le discordie civili, per dirla con Pietro Barcellona: «La politica è lo spazio pubblico dove si rende possibile la rappresentazione e la trasformazione degli affetti e delle passioni. La politica trasforma il conflitto distruttivo in agonismo e competizione vitale. La crisi della politica è crisi della capacità di produrre simboli, annichilimento della parola» (o aggiungiamo noi a un eccesso di parole). Quindi l’introduzione della partecipazione avrebbe in sé, questa importantissima valenza operativa e simbolica.
Fino a ieri quello dell’applicazione dell’art. 46 era una battaglia storica della Destra sociale a cui si sono aggiunti alcuni ex socialisti con Renato Brunetta e Maurizio Sacconi, oggi ne parlano anche Carlo Calenda (che da ministro la propose nel caso della crisi aziendale dell’Alcoa) e altri esponenti del centrosinistra. Forse i tempi sono propizi con la certezza che il paradigma partecipativo porta con sé più dialogo, più democrazia politica assieme a maggiore velocità e capacità decisionale. Queste possono essere le basi di un nuovo contratto sociale in grado di portare a tutti efficienza economica, giustizia sociale e diversità culturale. Proprio alla politica spetta il compito di tornare a progettare il nostro domani. È ora di farlo: come dopo la peste nera ci fu il Rinascimento, quando le classi dirigenti smisero di pensare secondo la mera logica aristotelica/tomista e adottarono un nuovo modello di elaborazione del futuro.