Un paio d’occhiali, la penna e una bottiglia. Il “noir” di Derek Raymond
18 Aprile 2010
Capita. Di nascere nel posto sbagliato, nel momento sbagliato e, soprattutto, nel contesto sbagliato. Ma la cosa peggiore, quella che blocca inesorabilmente anche l’ultima via d’uscita che imporrebbe la cautela, è averne una piena consapevolezza. E non poter giocare, dunque, al gioco comodo del lasciar correre. No, niente mani davanti agl’occhi. Impossibile turarsi il naso.
Londra, anni Quaranta: c’è la fame, la gente muore di stenti agl’angoli delle strade. La Depressione ha messo in ginocchio il Paese e la Seconda Guerra Mondiale l’ha definitivamente piegato. Come rimanere indifferenti di fronte al susseguirsi quotidiano delle peggiori atrocità? Come rintanarsi nella quiete ovattata dei propri privilegi facendo finta che tutto ciò che sta succedendo fuori non esista? No, c’è bisogno di fare una scelta. Per sentirsi uomini veri, uomini vivi.
Anche se magari si è soltanto poco più che bambini; anche se magari non si ha ancora nessuna sostanziale esperienza della vita; e anche, soprattutto, se si sa che il salto che si sta per spiccare è un balzo nel vuoto.
Derek Raymond, alias Robin William Arthur Cook (sì, proprio come il famoso scrittore di medical thriller), questa scelta la fece. Netta e definitiva. A soli 16 anni e pur essendo il rampollo di una delle famiglie più ricche e prestigiose della città. Alla malora Eton (come Orwell prima di lui, d’altronde), le convenzioni della buona società e i progetti cannibali di mamma e papà. Sbam, il pesante portone del castello di famiglia si chiude e finalmente si è fuori.
Certo, la strada è maestra affascinante e piena di malìa, però ci si deve ingegnare, scoprire come percorrerla cercando di inciampare il meno possibile. Ma c’è la voglia, oltre alla paura. E la certezza che la verità cui si sta agognando si nasconde tra le latebre di periferia e nelle gargotte fumiganti di quart’ordine. Eppoi c’è un mondo intero da scoprire, proprio oltre la Manica.
Un pellegrinaggio dopo l’altro, Raymond attraversa il cuore della vecchia Europa e si lancia più in là, Marocco, Stati Uniti, sempre alla ricerca della sua anima, sempre inseguendo –Keruoac docet – l’odore del vento. Lontano. Trafficante d’auto, venditore di materiale pornografico, vignaiolo, tassista, truffatore affiliato al clan dei celeberrimi fratelli Kray. E, in mezzo, cinque matrimoni e un milione di avventure. Ma, soprattutto, tre compagni di “viaggio” fedeli: un paio di occhi attenti, una penna e la bottiglia.
Ne viene fuori uno scrittore eccellente, uno di quei pochi cavalli di razza purissima in grado di segnare un’epoca e un genere. Il “nero”, manco a dirlo. Quello inquietante e palpitante dei cinque romanzi della Factory (E morì a occhi aperti, Aprile è il più crudele dei mesi, Come vivono i morti, Il mio nome era Dora Suarez, Il museo dell’inferno); quello esistenziale in cui brancola il suo protagonista, il Detective Senza Nome, la cui vicenda umana e interiore non si limita mai a fare da mero sfondo all’investigazione, ma ne sostanzia dolorosamente ogni passo; quello soprannaturale ma anche selvaggiamente terragno che contraddistingue i casi allucinati e allucinanti contro i quali va a sbattere.
Alla lezione imprescindibile degli Hammet, dei Chandler e dei Goodis, si assommano quelle dei maestri oscuri per antonomasia, Baudelaire e Shakspeare. Aggiungete un pizzico di Sartre e il mood doloroso di una canzone di Brassens. Il risultato è una narrazione che non lascia tregua, costringendo il lettore a rimanere incollato alla pagina e, quel che è peggio, a prendere piena visione degli orrori e della violenza che si nascondono dietro ogni angolo di strada. Senza poter far nulla, senza poter far finta che quella che si ha sotto agli occhi sia soltanto un’altra storia da leggere comodi in poltrona.
Sfortuna e tradizione condannano lo scrittore inglese a lunghi anni di assoluto anonimato, fino a quando un accorto e competente editore francese, Marcel Dunamel, incappa in uno dei suoi libri (The crust on its supper) e lo lancia, traducendolo egli stesso, nella famigerata Série Noire. Ora tutto il mondo della letteratura, seppur a rilento, seppur con la consueta diffidenza riservata agli autori considerati di genere, sembra accorgersi di lui. Perfino i suoi compatrioti, ingoiando sicuramente amaro, non possono far più finta di ignorarlo. Il nome di Raymond comincia a circolare e i suoi libri a scomparire rapidamente dagli scaffali delle librerie. È tempo di tornare a casa per raccogliere i frutti di un’esistenza da duro e fuori da ogni schema. Ad accoglierlo, ovviamente, non ci sono né i salotti imbottiti della upper class, né quelli altrettanto comodi dell’elite letteraria; ma ci sono un sacco di amici di strada e devoti ammiratori, oltre che svariati pub del West End e di Soho (chissà, probabilmente gli stessi di Francis Bacon, suo immenso speculare figurativo) in cui tirare fino a tardi con un pacchetto di Gauloises e un bel po’ di birra in corpo a parlare di letteratura, persone, vita.
Ci piace immaginare che per il vecchio leone gli ultimi anni di vita siano trascorsi così, in uno stato di quiete e stanzialità che lo abbia finalmente aiutato a far pace con tutte le sconfitte e gli inciampi. E con tutti i demoni, maledetti loro, che lo hanno tormentato nel corso di tanti anni. Perché in fondo è questo il gusto più dolce e vero del successo, no? Buon riposo, Derek.