Un presidente afro per placare le tensioni sociali in America
27 Gennaio 2009
di Daniela Coli
L’autore di "Colossus", Niall Ferguson, ha scritto che vent’anni fa a nessuno sarebbe venuto in mente un presidente americano afro. Nemmeno fra i democratici e fra gli accademici leftist. Un collega storico, di appena trent’anni, arrabbiatissimo con Reagan (come da noi un girotondino con Berlusconi), perse letteralmente la testa quando cedetti il posto accanto a lui a un meccanico afro, venuto a riportare l’auto dall’officina. Il gesto era il massimo dell’antiamericanismo, una provocazione tipicamente europea, continentale, un’ingratitudine inaccettabile dopo tutto quello che avevano fatto per noi. Stavo incoraggiando nientemeno che la rivoluzione afro! Spiegai che era semplice gratitudine.
Eravamo isolati in mezzo alla neve e con una telefonata un meccanico era subito venuto a prendere l’auto, l’aveva riparata e riportata. Difficilmente in Italia in tre ore e per pochi dollari avremmo avuto lo stesso servizio: non ero abituata a meccanici così premurosi. Annuì, ma disse chiaro e tondo di non fare più la “pantera nera”! Naturalmente, a Washington all’associazione annuale degli storici mi guardai bene dal chiedere perché vi fossero così pochi storici non bianchi. Era stata introdotta la legge delle pari opportunità, per le quali un candidato nero veniva facilitato nell’accesso alla carriera accademica e la cosa non piaceva ai maschi bianchi, anche se erano dem e leftist. Viaggiando per gli States mi colpì l’assenza di controlli di ogni tipo, compresi gli aeroporti ( si era in piena deregulation), e mi lasciai scappare che sembrava un paese ideale per il terrorismo. Grandi risate: “baby, here you are in the
negli Stati Uniti sembrava assurdo, unthinkable. L’ottimismo continuò negli anni ’90, anche se il crollo inaspettato dell’Urss, pur suscitando soddisfazione e facendo parlare di impero americano, eliminava un nemico temibile, ma destava inquietudine la domanda su chi sarebbe stato il nuovo sconosciuto nemico dell’America.
Negli anni ’90 negli States non avevano idea del terrorismo, conoscevano la guerriglia vietnamita, ma il Vietnam era stata una sporca guerra e la convinzione di avere perso perché era una guerra ingiusta silenziava ogni incertezza. Anche questa è la religione civile americana. Per questo, l’attentato delle due torri, pur non essendo una sorpresa per gli americani più accorti, fu il grande trauma. Da una parte, per la prima volta, l’America, protetta da due oceani, veniva attaccata a casa con un attentato impensabile, dall’altra la certezza di essere un paese democratico e umanitario fece pulsare di patriottismo ogni cuore americano e partecipare con entusiasmo alla guerra in Afghanistan, una guerra giusta anche per filosofi pacifisti come Walzer e, in quanto giusta, una guerra già vinta – era implicito. Una guerra però non ancora vinta ancora nel 2009, come quella in Iraq iniziata nel 2003. Anche quella, nonostante le critiche, sembrava un blitzkrieg, una guerra veloce, facile, giusta. L’11 settembre e le frustrazioni in Afghanistan e in Iraq hanno trovato in George W. Bush il capro espiatorio: al texano miliardario e wasp si è opposto Obama, l’afro venuto dal niente, giovane, buono. Il simbolo mitico dell’America buona, innocente, generosa, giusta. Un’icona necessaria per cambiare l’immagine dell’America delle guerre intelligenti, ma anche un messaggio ai tanti soldatini tutt’altro che wasp morti nelle ultime guerre, dopo la fine dell’esercito di leva dopo il Vietnam. La maggior parte dei caduti delle guerre americane dopo
L’America ha tanta religione civile, ma anche tanto pragmatismo e sa quanto sia necessario nei momenti difficili un uomo della provvidenza. La democrazia offre appunto questa opportunità. Vedremo se Obama, il 44° presidente con la peggiore situazione sulle spalle, saprà fare canestro.(Daniela Coli)