Un sondaggio rivela: iracheni più ottimisti
19 Marzo 2007
Proprio alla vigilia del quarto anniversario dell’intervento degli Stati Uniti in Iraq, un sondaggio dell’Opinion Research Business (ORB) ci rivela che nel popolo iracheno sta tornando l’ottimismo. L’indagine, la più grande mai condotta dal 20 Marzo 2003 ad oggi, su un campione di ben 5019 cittadini iracheni di età superiore ai 18 anni, si è avvalso di oltre 400 intervistatori sparsi su tutto il territorio con il compito di cogliere l’umore della popolazione irachena. Molti i dati significativi.
Il primo è che il 49% degli intervistati preferisce il governo Maliki al regime di Saddam, mentre solo il 26% afferma che si viveva meglio sotto il regime ba’athista. C’è quindi una crescita di consenso a favore dell’attuale governo rispetto al mese di settembre, quando, stando a un sondaggio dello stesso istituto, il suo indice di consenso non superava il 29%.
Un altro dato importante è che soltanto il 27% (il 41% sunnita e il 15% sciita) crede la conflittualità che attraversa il paese corrisponda a una guerra civile.
Importante è anche la difficoltà di lavoro nella città, infatti un altro dato mostra che nel 35% dei casi un membro della famiglia ha lasciato la città, e questo tipo di fuga ha riguardato per la maggior parte appartenenti alla classe media professionale. L’unica eccezione a questa crisi è rappresentata dall’area Kurda, che comportandosi come una provincia autonoma, ha trovato un relativo equilibrio interno.
Ma soprattutto, merita attenzione il fatto che nella popolazione irachena cresce gradualmente la percezione della sicurezza. “Gli americani hanno dei checkpoint – afferma un ragazzo per strada – e la cosa più importante è che non ti chiedono qual è la tua identità, se sei sunnita o sciita”. Questo a testimonianza di come l’atmosfera sta pian piano migliorando nelle strade di Baghdad e dintorni. Malgrado il conflitto interreligioso e la pulizia confessionale, il 64% degli abitanti vuole vedere un Iraq unito sotto un’unica amministrazione centrale.
Sembra quindi che le dichiarazioni del Presidente Bush, secondo cui “Qualche buon progresso c’è stato anche se c’è ancora molto lavoro da fare, e i leader iracheni devono continuare a lavorare per incrementare gli obiettivi che noi gli abbiamo fornito”, trovino un riscontro diretto. Bush ha parlato brevemente ieri alla Casa Bianca in occasione del quarto anniversario dell’inizio della guerra, dicendo anche che “se le forze americane dovessero lasciare Baghdad prima che sia sufficientemente sicura – prosegue Bush – un’ondata di violenza colpirebbe l’intero territorio”. Affermazione questa che tuttavia non trova d’accordo il 53% degli intervistati, convinto che il ritiro degli americani migliorerebbe le condizioni di sicurezza fin dalla prima settimana. Il 26% ritiene, invece che il disimpegno degli Stati Uniti avrebbe conseguenze nefaste. L’invio di altri 21.500 soldati, nell’ambito del nuovo piano per la sicurezza votato da Bush, fuga comunque ogni dubbio sul futuro della presenza americana in Iraq. E la maggiore determinazione nel contrastare le ingerenze di Iran e Siria, con le operazioni militari a Sadr City, l’autorizzazione ad eliminare spie iraniane e l’accusa rivolta a Teheran di armare le milizie sciite , dimostra che gli Stati Uniti non hanno intenzione di mollare la presa e di lasciare il paese prima di averlo stabilizzato.