Un Tim Burton da record batte Avatar e trova la sua “Wonderland”

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Un Tim Burton da record batte Avatar e trova la sua “Wonderland”

14 Marzo 2010

“È impossibile! Solo se pensi che lo sia”. Il monito del Cappellaio Matto trova riscontro nella realtà: Alice in Wonderland di Tim Burton sbanca ai botteghini mondiali, scalzando persino Avatar, la megaproduzione di James Cameron. Con 116 milioni di dollari incassati negli Stati Uniti e 8 milioni di euro in Italia, il film, ispirato dai due libri – Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio – frutto della penna del visionario Lewis Carroll, si è già assicurato il titolo di sesto miglior incasso d’apertura di sempre. Il Los Angeles Times – che per l’uscita del film ha trasformato la sua prima pagina in una locandina pubblicitaria – lo chiama già “Alice in Moneyland”.

Alice (interpretata dalla giovane Mia Wasikowska) non è più una bambina. Ha 19 anni, un lord – iperbole del conformismo e dell’ovvietà – che la vuole sposare e responsabilità nei confronti della famiglia; ma ancora non ha trovato se stessa, non ha mai smesso di dare sfogo alla sua fervida fantasia, continuando a sognare il Paese delle Meraviglie. L’Alice burtoniana è l’emblema dell’emancipazione della donna moderna, ma che deve ancora prendere coscienza di sé (“è solo un sogno”, continua a ripetere). Sente di essere diversa dagli altri, ma non sa cosa vuole realmente. Sarà solo seguendo il saltellante e ritardatario Bianconiglio che Alice ripiomberà nel buco nero del mondo onirico, uscendo della terra di mezzo dell’adolescenza, dove l’insofferenza cresce di pari passo con il bisogno di ottenere un’affermazione personale e sociale. Il sogno le permetterà, paradossalmente, di tornare al mondo reale scevra da illusioni, tant’è che la sua crescita consisterà soprattutto in un rifiuto di scendere a patti con la realtà, giudicata non meno insensata di Sottomondo (liquiderà lo squilibrio della vecchia zia come semplice caso psichiatrico). Tra fiori parlanti, pozioni rimpicciolenti e saggi brucaliffi, Alice finalmente scopre la sua vera identità e accetta la responsabilità nei confronti del mondo circostante, anche se ciò significa lottare contro un mostro (la paura, l’irrazionalità, il pregiudizio) che prima rifiutava di affrontare.

Tim Burton, affiancato per la settima volta dal fedele Jonny Depp, nelle vesti di un Cappellaio Matto – un po’ sottotono, ad essere onesti –, ci regala una versione della fiaba con le sfumature dark e goticheggianti che da sempre lo contraddistinguono, pur lasciando trasparire l’impronta disneyana che ritroviamo nella linearità della trama, nei personaggi che vengono ripescati tutti dalla versione annidata nell’immaginario collettivo, e alla presenza di scenografie sgargianti che rompono l’atmosfera tetra ricreata dal visionario regista. Il tocco personale e il genio di Burton emergono in ogni caso, soprattutto nei dettagli. L’uso stesso del 3D appare quasi accessorio, tanta è la cura di scene e personaggi (vedi la Regina Rossa dall’enorme testa interpretata dalla bravissima Helena Bonham Carter). Il Paese delle Meraviglie è il luogo più cupo e senza sole che si possa immaginare, dove diffidare di chiunque sorrida, ove le teste mozzate sono diventate così tante da poter costruirci dei ponti; la speranza è qualcosa che neppure si riesce a ricordare, ed ovunque si scorgono tracce di aridità, di fanghiglia, di squallore, il tutto talmente profondo, talmente coinvolgente, in un caleidoscopio di colori e forme talmente incredibile, da non poterlo definire in alcun altro modo, nella sua incomparabile tristezza, se non bellissimo.

La critica si è divisa sulla pellicola e i più delusi hanno visto in questa produzione uno svilimento del genio che solitamente caratterizza il lavoro di Burton. Ma si sa, le aspettative di un anno e mezzo spesso creano miti-fantasma e non ci si può aspettare sempre il solito Tim. Lui stesso aveva definito l’opera “un nuovo territorio”, dalla natura incerta. Anche per Burton, come per Alice, il mondo onirico di Carroll può aver avuto il significato della presa di coscienza di nuovi orizzonti registici.

La nuova versione della creatura di Carroll, così come ci è restituita dal regista californiano, inneggia ai valori dell’utopia – la missione dell’Alice adulta, un vero scontro tra il bene e il male, è quella di liberare il Sottomondo dalla tirannia della Regina Rossa, combattendo il Ciciarampa, un mostruoso e invincibile drago per restituire il trono alla Regina Bianca (Anne Hathaway) scacciata in malo modo dal castello – e fa un elogio della fantasia (pazzia) ma senza troppa convinzione anarchica. Lo Stregatto, il Bianconiglio, il Leprotto bisestile, tutti ‘meravigliosamente’ fuori di testa. Il che, nel mondo burtoniano, può essere solo un pregio e non certo un difetto, tanto che il regista affida ad Alice la battuta che riassume, in fondo, la filosofia sottesa in tutti suoi film: “Tutti i migliori sono matti”.

Dei molteplici giochi matematici di Carroll e delle sue curiose equazioni nascoste sotto le parole delle fiabe, resta l’interrogativo più spaventoso, che terrorizzerebbe forse anche lo stesso Burton: se tutto ciò che viviamo non fosse altro che il sogno di qualcun’altro, che ne sarebbe di me al suo risveglio?