Una ballata per Elliott Smith

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Una ballata per Elliott Smith

01 Agosto 2010

Un uomo ha sempre qualcosa che lo perseguita (Henry Charles Bukowski junior).

C’è una credenza popolare, "popolana" bisognerebbe dire, secondo la quale l’aria che si respira quando si è giunti alla vetta di una carriera professionale e, ancor di più, artistica sia così pura e buona e benefica da riuscire a cancellare con un semplice colpo di vento tutti i dolori e le delusioni che abbiamo affrontato per raggiungerla.  È come se, ex abrupto, saltasse fuori una specie di pantafarmaco aereiforme – dalle capacità retroattive per di più – con il quale curare una volta per tutte ogni male che si trova dentro e fuori di noi. E stare, finalmente, bene. C’è una porta che si chiude. Una litigata? Difficile da immaginarsi. Con Jenny le cose stanno andando bene, addirittura si parla di metter su famiglia, fare dei bambini…

Eppure, Elliott non è più tanto in sé. Lo dicono gli amici di un tempo e quelli nuovi. Lo dicono anche quelli che lavorano con lui nella produzione dell’ultimo album. Che uno possa essere maniacale dietro la consolle o nella ricerca di una sfumatura di un accordo, ci si può stare. Fa parte del gioco del musicista e anche del personaggio (anche quando il personaggio è un antieroe). Ma non dormire per giorni e andare avanti col più dissennato mix di psicofarmaci, droghe e stimolanti presenti sul mercato per non fermarsi mai, quello no. Sembra comunque che stia allentando. In ogni caso, i lavori stanno andando alla grande. Ci sono diverse canzoni finite e, a sentire le prime outtakes, non c’è dubbio che si tratterà di un nuovo capolavoro. D’altronde, ci sono tutti abituati, ormai. Troppo abituati. E non a torto. Sì, perché da Roman Candle in poi è stato un crescendo vorticoso, esaltante. Probabilmente unico in tutta la storia della musica degli anni Novanta se si comparano gli standard qualitativi e l’intensità emozionale che è stato in grado di regalare.

Il ragazzo timido che faceva a botte nelle strade di Portland per difendere i più deboli, che si rifiutava fermamente di incarnare l’ennesimo stereotipo di maschio-maschilista tutto sport, cameratismo e prevaricazioni, un bel giorno aveva deciso di mettere insieme i cocci della sua anima fragile e inquieta e, smessi i panni di indie-rocker sfigato con la chitarra a palla e la voglia di far casino insieme agli Heatmiser, si era ritirato nella cantina di casa per registrare una dozzina di pezzi acustici che parlassero una nuova lingua e rappresentassero davvero il suo paesaggio interiore. Niente distorsioni poderose, suoni saturi e altre diavolerie di repertorio, ma melodie sospese tra cielo e terra (molta, molta più terra) baciate da un fantastico fingerpicking e da giri di accordi strani, profondamente armonici. E poi quella voce, calda e lontana nello stesso istante, timida e arrabbiata, perfezionata nella resa audio dal più facile degli espedienti di registrazione che si possa immaginare (basta tirarsi indietro una ventina di centimetri dal microfono, no? E c’è chi paga fior di quattrini per dei producer di mezza tacca!).

E da quel momento in poi, niente più lo stesso. Un successo che ha proiettato il piccoletto di Omaha costantemente in avanti, trasformandolo da semplice comprimario della scena musicale dell’Oregon in sicura promessa del rock d’autore, allontanandolo dalla dimensione underground per regalargli pubblici e attenzioni sempre più vasti. Su, sempre più su. Fino al grande "botto", fino alla possibilità di vincere, con la splendida Miss Misery, inserita nella colonna audio di Will Hunting – Genio Ribelle, nientemeno che il premio Oscar per la migliore canzone originale (e poco importa esser stati sconfitti –  sigh! – da My heart will go on nell’interpretazione "tempestosa e nubifragica" di Céline Dion). Eppure…
Si dice sempre che nella vita le onde vanno cavalcate, come se tutti, ma proprio tutti fossimo perfettamente in grado di diventare dei novelli Kelly Slater e non cadere mai dalla cresta più alta.

In realtà, ci vuole predestinazione. Un "fisico di ruolo" davvero marchiato a fuoco nel Dna per starsene sempre lì, petto in fuori e pronti agli onori senza sentirsi stanchi. No no, la quotidianità è un altro affare, per niente facile. Si tratta di gestire, mediare. Venire in qualche modo sempre a patti con uno standard presenzialista al quale tutto si deve sacrificare. Momenti buoni, momenti cattivi… Bisogna saper reggere ogni singolo momento il peso del proprio nome e quello che si rappresenta per i fan.
Elliott, per fortuna, non è uno con una fama da rockstar planetaria. Probabilmente, se così fosse stato, si sarebbe già ritirato, seppellito dal peso di una "recitazione" che in nessun modo avrebbe saputo tollerare. Si sa, nella maggior parte dei casi il palco per un musicista è né più né meno che il proscenio per l’attore. In entrambi i casi, chi sta davanti si attende un bìos scenico d’eccellenza. Certo, non tutti saranno come Elvis, Mick Jagger, Iggy Pop e compagnia bella, ma insomma…

Lui, invece, è da sempre, perlomeno nella sua carriera solista, estremamente schivo, timido. Si presenta con la chitarra e, quando ci sono, con un drappello sparuto di collaboratori. Attacca a suonare il pezzo, lo finisce, va avanti col successivo e niente più. Senza piroette. Senza aizzare la folla o inscenare quel rito pagano ed estremo che rappresenta il concerto di rock’n’roll nell’immaginario collettivo. Semplicemente se stesso, un ragazzo pieno di ansie, insicurezze. Uno che parla ai suoi coetanei attraverso le canzoni senza pensare mai di poter fare la lezione a nessuno. Sì, perché Elliott sente che non ha nulla da insegnare. Sa che ci sono dei luoghi così oscuri nella sua anima, che non si azzarderebbe mai a reclamare uno scranno per pontificare con tono apodittico sui massimi sistemi dell’esistenza. Nonostante ormai sia grande, un uomo, ancora guarda sotto il letto prima di provare a dormire. Sì, perché quella terribile paura d’infanzia sembra non essere andata mai via e c’è sempre il pericolo che un giorno salti fuori con le fattezze del più truce Carondimonio e lo trasporti con uno strattone in quell’inferno vivo che ha sempre immaginato e temuto.

Una ferita, c’è una ferita aperta e non si sa quando e da chi sia stata provocata. Forse subito dopo l’istantaneo divorzio dei suoi genitori, poco dopo la sua nascita? O forse quando sua madre ha deciso di risposarsi con l’autoritario Charles, un tipo un po’ troppo addentro al fanatismo religioso e assai incline a menar le mani (Charlie beat you up week after week/ and when you grow up you’re going to be a freak, canterà in Some Song)? O forse ancor più in là, durante la prima adolescenza, quando la presa di contatto con la realtà adulta gli ha subito sbattuto in faccia la frattura insanabile tra lui e la quasi totalità dei suoi coetanei? O forse… Non si sa, non si sa. Quel che è certo, invece, è che Elliott, nonostante il successo e l’amore incondizionato che i fan dedicano solo ai più grandi, è andato giù, sempre giù, abbandonandosi ad una specie di implosione che lo ha disgregato un pezzo alla volta, trascinato via. Un tunnel, come quelli della metropolitana di New York, dove lui ha preso la terribile abitudine di aggirarsi di notte quando i treni hanno finito di prestar servizio. Nel buio, come nel ventre di una balena malvagia…

E il resto lo hanno fatto i suoi peggiori timori di ragazzo, purtroppo divenuti realtà. Sì, perché contrariamente a quello che molta gente crede, lui è diventato ‘drug addicted’ (e non tossico all’ultimo stadio) soltanto molto tempo dopo aver intrapreso il suo cammino d’artista. Tutte quelle continue allusioni alla droga e al mondo dei junkies iniziate con la pubblicazione dell’album omonimo (basta leggere le parole di Needle in the Hay), in realtà erano disperati urli di paura, perché Elliott ha conosciuto l’uso e l’abuso di sostanze psicotrope soltanto negli ultimissimi momenti, dopo l’arrivo nella città degli Angeli all’inizio del nuovo millennio, quando la necessità di trovare, anche solo per un istante, un po’ di protezione da se stesso lo ha indotto a cedere a quella tentazione contro la quale si era difeso per quasi trent’anni. Un buco nero, dalle pareti sdrucciolevoli e scivolosissime. E in fondo nessuna verità, soltanto un Grande Niente, proprio come quello cantato con struggente cognizione interiore in Ballad of Big Nothing.  Puoi fare quel che vuoi quando vuoi (You can do what you want you/whenever you want to), ma non ce la farai se non sei convinto.

Jenny è in bagno quando sente l’urlo. Esce e se lo trova lì, che sbanda per il corridoio con un coltello piantato nel petto e un mare di sangue ai piedi. Poi cade. È il 21 ottobre del 2003 e mezzogiorno è passato da pochi minuti. Arriva l’ambulanza che lo trasporta in ospedale. I dottori si danno un gran da fare, chiudono tutte le perforazioni provocate dalla lama, ma nel giro di un’ora Elliott se ne va per le complicazioni. Morto.

Due coltellate, secondo l’autopsia. Dritte al bersaglio. Il cuore, neanche a dirlo. Quel cuore dal quale tutto, ma proprio tutto partiva nella vita di Elliott. Quel cuore nel quale, probabilmente, lui ha sentito di non saper più abitare come prima. Che non era più rifugio per le gioie più minute, né serbatoio spirituale per tentare di acciuffare perlomeno un’altra emozione, quella di diventare padre, marito.
"Meglio finirla così", avrà pensato. Pochi secondi per calibrare i colpi e addio. Ci piacerebbe pensare che quel gesto lo abbia davvero liberato e che, finalmente, abbia potuto trovare il sollievo che in mille altri modi aveva cercato nella vita su questa terra. Invece, molto più terragnamente ed egoisticamente, dentro di noi che lo amiamo, rimane soltanto il rimpianto di non averlo più qui, con quelle mani nervose appoggiate sulla cassa armonica della chitarra e lo sguardo perso nel vuoto alla ricerca della sequenza di note e accordi per raccontarci qualcosa  di sé. Ci manchi, Elliott. Ci manchi.