Una bicamerale per uscire dalle sabbie “immobili”
14 Gennaio 2012
Ieri si sono verificati due avvenimenti fondamentali per il prosieguo della vita politica o, forse, della vita stessa della politica: le dichiarazioni del premier Monti sullo stato dell’Europa e dell’euro e la decisione della Corte Costituzionale sull’ammissibilità dei referendum.
La rilevanza di tali eventi – accompagnati dalla votazione sul caso Cosentino che ha monopolizzato l’attenzione degli organi di stampa – se, da un lato, impone un dibattito serio, nella sede propria, il Parlamento, dall’altro, esige valutazioni accurate, scevre da tentazioni semplicistiche.
Negli scorsi mesi, infatti, da più parti, economisti, politici, commentatori presagivano il ritorno alla normalità e la fine dell’attacco speculativo con il solo cambio di Governo. In realtà, la virulenza della speculazione avrebbe dovuto far preconizzare tutt’altro scenario.Motivo per cui, alcuni di noi hanno pensato di dover chiedere più coraggio all’attuale Governo, come, del resto, avevano fatto con il precedente.
La crisi europea, come quella italiana, è frutto non di una crisi finanziaria – finanziario semmai è il terreno in cui l’attacco viene sferrato – quanto, piuttosto, di una crisi politica, di rappresentanza, di valori e di idee. Bisogna, dunque, dar vita ad un Progetto-Nazione e, insieme, dar forza ad un Governo di coesione nazionale, che, a sua volta, sappia farsi promotore o, comunque, sostenitore di scelte politiche con la creazione di strumenti nuovi.
Non v’è dubbio, infatti, che solo un’Italia forte, coesa e realmente rappresentativa sarà in grado di colmare il deficit di democraticità che permea le istituzioni europee. Di qui, la necessità che si presenti in Europa con la forza di valori positivi e non con il fardello di una dimessa questuante.
Il nostro Paese porta il peso di un enorme debito pubblico ma, allo stesso tempo, vanta un grande patrimonio pubblico e un considerevole risparmio privato. Perchè, però, si possa valorizzare la ricchezza, occorre riporre le vecchie ricette da “decretone aumento benzina”, che tanto sanno di fine prima Republica, e magari costituire un fondo “Patrimonio Italia” che, ad oggi, avrebbe una capienza di circa 700 miliardi di euro, immetterlo sui mercati e cederne quote anche come controprestazione di una patrimoniale.
C’è una giungla di agevolazioni e deduzioni – 720 per un valore di 254 miliardi di euro!- e trasferimenti a fondo perduto – 40 miliardi di euro l’anno. Complessivamente, circa 300 miliardi di euro che potrebbero essere utilmente impiegati per finanziare famiglie, lavoro dipendente, imprese e consumi; per introdurre il quoziente familiare; per ridurre il cuneo fiscale; per abolire l’Irap e per cancellare l’aumento dell’Iva.
Ora che tutti hanno maturato la consapevolezza della fallacità di un sistema finanziario fondato su “carta”, va ricordato che l’Italia è il terzo Paese al mondo per riserve auree.
Ci sono tutti i presupposti per uscire dalla crisi e per guidare un progetto di rinnovamento dell’Europa e dell’euro che tenga conto dei valori veri e non delle suggestioni di speculatori che si alimentano dell’azione di spregiudicati tecnocrati; ma perché ciò avvenga, prima di tutto, si deve ricostruire una vera rappresentanza politica, rifondandola e, contemporaneamente, dar vita ad un Progetto-Nazione attorno ad una cittadinanza attiva, che, consapevole del proprio debito, voglia riappropriarsene, recuperando una sua tipica qualità: quella di essere “proprietaria”.
Questo è il momento, poiché quando si toccano i fondamentali del patto sociale – casa e pensioni – tutto deve tornare in discussione per non permettere che, in qualche angolo, possano continuare ad albergare impunemente odiose rendite di posizione, partendo dalla cancellazione dei veri privilegi, da quelli noti a quelli meno noti, come i patti di sindacato che neutralizzano i capitali di chi ha voglia di investire, le fondazioni bancarie, i servizi pubblici locali.
Questa è la ricetta se, oltre all’attuazione delle liberalizzazioni, si ha di mira la liberazione dall’Italia “immobile”, così qualificata sia per la caratteristica staticità sia perchè l’immobile è l’unico orizzonte di investimento che, sino ad oggi, lo Stato ha garantito ai cittadini e creare il vero secondo tempo necessario.
Dopo il rigore, non può che seguire, infatti, l’equità, quale elemento propulsore della crescita. Ma l’equità esige una politica forte.
Oltre che nella definizione delle regole, occorre impegnarsi nell’individuazione di un nuovo campo di gioco, dove far valere il dinamismo partecipativo, sia esso politico che economico.
Ma anche qui, non bastano gli slogan e le invettive contro la legge elettorale per arginare quel sentimento sin troppo comune, fatto di frustrazione, insofferenza e disincanto che spinge verso la cancellazione stessa della politica, assieme alla sua attuale classe dirigente.
Circa 20 anni fa, un referendum popolare abrogò il sistema proporzionale e, con esso, le preferenze, considerate, allora, l’origine del malaffare e della dilagante corruzione. Oggi, chi non si dichiara a favore delle preferenze è un reprobo; per non deludere le aspettative collettive, in soli tre mesi – gli ultimi – si è passati dalla difesa delle firme alla chiara condivisione dello “scontato” giudizio della Corte.
Se ieri il referendum era la spina nel fianco di Berlusconi, oggi, la sua inammissibilità rischia di diventare la mina per far saltare Monti. A meno che non torni il primato della politica, senza illudersi che, per ristabilirlo, sia sufficiente l’approvazione di una nuova legge elettorale.
Si dovrebbe, piuttosto, ragionare sulla necessità di istituire una bicamerale che chiuda una fase politica senza lasciare il paese nell’horror vacui – che, dal punto di vista giuridico, ha atterrito la Corte – e apra a nuove forme di partecipazione, regolamentate secondo il dettato costituzionale, affinché la selezione di chi vuole governare la politica, l’economia e la società segua le direttrici della trasparenza, della professionalità e della competenza.
Non ci si può rassegnare, in Italia come in Europa, ad una deriva della democrazia.
(Tratto da Il Secolo d’Italia)