Una Brexit in salsa norvegese? “No” scandinavo all’ingresso della Gran Bretagna nell’Efta (per ora)
15 Dicembre 2018
di Vito de Luca
L’uscita dall’Unione europea, da parte del Regno Unito, non è complicata solo dalle questioni legate all’Ulster (la merce potrà transitare senza barriere doganali, in Irlanda del Nord?), dal futuro rapporto con l’Ue, dalla tenuta della sterlina, dalle politiche migratorie, insomma da una hard o una soft Brexit, da un «deal» o un «no deal» più o meno digeribili. Il punto è che anche il modello alternativo che spesso viene evocato, per indicare una strategia di Brexit, il modello norvegese – secondo il quale la Gran Bretagna rimarrebbe nel mercato comune dell’Ue, seguendo le regole del blocco, ottenendo così il diritto di firmare i propri accordi commerciali con paesi esterni – sembra al momento chiuso. Ma sarebbe congruente, una Brexit, con l’attuale schema norvegese, che, con alcune distinzioni, è applicato ai membri dell’Associazione europea di libero scambio, l’Efta, alla quale aderiscono, oltre alla Norvegia, Svizzera, Islanda e Liechtenstein, nessuno dei quali è ufficialmente nell’Ue? Difficile dirlo, tanto che un’adesione all’Efta, da parte della Gran Bretagna, comporterebbe anche un’adesione a regolamenti inaccettabili per una Brexit dura e pura, come l’avrebbero voluta i sostenitori del “Leave”, risultati in maggioranza al referendum, poiché chi ha sottoscritto la partecipazione all’Efta, ha anche accettato delle regole sulla libera circolazione delle persone, mentre invece un filtro dell’immigrazione dal resto dell’Ue è stato un importante fattore motivante per gli elettori britannici che hanno optato per l’uscita nel 2016. Ma vi è anche un altro aspetto, che potrebbe fungere da barriera ad una Gran Bretagna che fa le viste al modello «norvegese».
Gli stessi norvegesi pensano che sia una cattiva idea lasciare che la Brexit conduca il Regno Unito nel loro club. «Noi pensiamo», ha affermato nei giorni scorsi a Channel 4, nel Regno Unito, Heidi Nordby Lunde, membro conservatore del parlamento in Norvegia, rivolgendosi agli inglesi, «che rovinereste tutto a noi, visto il il modo in cui avete rovinato tutto per voi stessi». Parole nette, che non fanno presagire un benvenuto. E il partito di Lunde, va sottolineato, è il principale partito dell’attuale coalizione di governo norvegese sotto il primo ministro Erna Solberg. Per rincarare la dose, poi, nei giorni scorsi al The Guardian Lunde ha inviata una lettera nella quale ha scritto che l’opzione norvegese non può essere qualcosa di temporaneo.
«Sarebbe come invitare uno zio chiassoso», ha chiosato la leader politica, «a una festa di Natale, e indurlo a sputare nelle bevande, sperando che le cose vadano bene. Non si fa così»», ha rimarcato Lunde, ed è difficile essere più chiari. Inoltre, ha aggiunto, «non ci interessa essere considerati come una fidanzata di ripiego, in attesa di trovare qualcosa di meglio». Dunque, se le parole di Lunde hanno un peso, e lo hanno, la strada per una soluzione norvegese è preclusa alla Gran Bretagna, come pure impervio appare il sentiero che porta alla richiesta di un endorsement da parte del governo tedesco, all’accordo già stipulato tra il primo ministro inglese, Theresa May, e Bruxelles, non ancora approdato alla discussione nel parlamento di Londra. E chissà se lo sarà mai.