Una certa idea di democrazia
28 Dicembre 2010
Se non vogliamo ridurre le manifestazioni popolari alla spiegazione di comodo che ne danno il governo, che le subisce, le opposizioni, che le cavalcano, e i media che soffiano sul fuoco della polarizzazione politica, dovremmo tentare una spiegazione strutturale, ragionevolmente plausibile. Anche prendendo per buona la vulgata che "a muovere le masse" sarebbero gli interessi e le emozioni elementari, più che le idee, resta il fatto che, qui, le masse non si vedono, che a manifestare, ancorché legittimamente, sono delle minoranze, mosse da idee messe in circolo da una cultura che si è formata alla scuola di matrice rivoluzionaria e irrazionalistica.
Non regge la spiegazione pauperistica di un malessere generale, generato dalla crisi economica che avrebbe impoverito il Paese e accresciuto il divario fra i ceti sociali abbienti e quelli indigenti. È pur vero che la crisi si sente, ma non siamo piombati nella preistoria della "società del benessere" – dove, prima, vivevamo tutti più o meno decentemente e approdati nella "società del bisogno". Le nostre città sono ancora soffocate da migliaia di automobili; i ristoranti sono meno affollati, ma ancora frequentati, così come, i negozi.
Non regge la spiegazione del malessere generazionale. I ragazzi che manifestano non sono alunni delle scuole tecniche che assicurerebbero un mestiere – figli dell’idraulico, ma liceali della borghesia abbiente e lo stesso figlio dell’idraulico (introvabile se non a caro prezzo) che il padre manda all’università nell’illusione che la laurea sia ancora titolo di elevazione sociale, mentre spesso condanna alla disoccupazione. Non regge neppure la spiega zione del disagio giovanile per l’aleatorietà del futuro, che la sociologia post-fordiana, nostalgica della Fabbrica – fino a ieri demonizzata per la ripetitività alienante del lavoro alla catena ehapiiniana – chiama precarietà e che, invece, è un dato della Modernità, dove artefice del destino di ciascuno non è più il Sovrano, fosse esso l’autocrate dell’Antico regime o lo Stato sociale, ma l’individuo libero e responsabile.
E, allora, come la mettiamo? Tutte quelle spiegazioni, parziali, ideologiche, fuorvianti, sono figlie della contrapposizione fra l’idea di "democrazia pluralista" e quella di "democrazia liberale". Scrive Dino Cofrancesco sull`Occidentale, giornale online: "Nella political culture egemone, che non è quella condivisa dalla maggioranza degli elettori, ma quella che si è ormai affermata nelle università, nei dibattiti televisivi, nei grandi organi di informazione… il binomio "pluralismo dei diritti" sembra voler ridurre drasticamente il potere e la libertà del legislativo, un tempo espressione della ‘volontà generale’: si sostiene che ci sono interessi e valori, dall’istruzione alla sanità, dagli statuti dei lavoratori alla tenuta sotto controllo pubblico dei mercati, che non possono essere messi ai voti". E ciò che un altro grande liberale, Nicola Matteucci, criticando il ’68, chiamava una "prassi,politica che tendeva a saltare le mediazioni istituzionali e si rifugiava nell`assemble- arismo, nel mito dello sviluppo, nella critica indiscriminata della classe politica e della storia repubblicana". Contro la supposta tirannia delle maggioranze parlamentari.
Il liberalismo e il pluralismo riconoscono entrambi l’esistenza di interessi conflittuali fra le varie categorie sociali, ma la "democrazia pluralista" tende a "giuridicizzarli", a conferire alle associazioni che ne sono interpreti, e persino alla Piazza, un potere di veto, mentre la "democrazia liberale" riconosce solo nel Parlamento il luogo in cui si prendono quelle decisioni vincolanti per tutti che sono le leggi. Il liberalismo – che si identifica nel principio di rappresentanza e assegna alla Politica di regolare le relazioni sociali – è la "libertà dei moderni"; il pluralismo – che pone l’accento sull’intervento diretto nel processo decisionale dei "produttori" interessati – è la "libertà degli antichi", dove tutto si decideva nella piazza della città-Stato. Commenta Cofrancesco: "A leggere senza paraocchi ideologici i fatti di Londra e di Roma – e prima ancora di Parigi – si è indotti a prendere atto che, in tutte le sue versioni, il pluralismo anti-liberale finisce per difendere, sotto mentite spoglie progressiste, l`esistente e la riprova sta nel fatto che, nel nostro Paese, come in Francia e in Inghilterra, le piazze non si sollevano se ‘tutto rimane come prima’, ma solo se si profila un qualche significativo cambiamento in un qualsiasi ambito della vita pubblica". Da noi, il "pluralismo malato" è anche un riflesso corporativo in base al quale "sono i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari che debbono dare il loro consenso alla riforma del sistema ospedaliero; sono i professori e gli studenti a decidere della natura e delle finalità dell`istruzione pubblica (…). Nella democrazia liberale, le ‘competenze’ vengono ascoltate, però poi decide sovranamente il Parlamento; nella democrazia pluralista, il Parlamento diventa il notaio che registra gli accordi raggiunti dai sunnominati. ‘soggetti del pluralismo’".
Così si spiega perché questo Paese è paralizzato e non cresce.
(Tratto da Corriere della Sera)