Una lettura attuale: popolo, classe dirigente e modelli stranieri nella “rivoluzione napoletana” del 1799 di Cuoco
01 Maggio 2020
L’Occidentale, durante la “Fase1” ha pubblicato a puntate la “Storia della Colonna Infame” di Alessandro Manzoni. Per come si è avviata, a noi pare che la lettura più rappresentativa della “Fase 2” sia il “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799″ di Vincenzo Cuoco. Lo pubblicheremo a puntate nella sua versione originaria. Oggi, dopo la presentazione del professor Giovanni Orsina, partiamo con l’introduzione dell’opera di Cuoco.
Il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 di Vincenzo Cuoco – pubblicato per la prima volta nel 1801, e poi in edizione riveduta cinque anni dopo – è un classico del pensiero politico non soltanto italiano, una ricostruzione e interpretazione potente di un episodio cruciale della storia del nostro Paese che si allarga spesso a una meditazione profonda sul potere, la politica, le passioni umane. Non è certo questo il luogo nel quale se ne possa dare conto in maniera compiuta, allora. Questa breve nota, perciò, si limita “semplicemente” a spiegare alcune delle ragioni per le quali ha senso rileggere oggi questo libro. Il Saggio, in verità, è sempre attuale, perché mette il dito in piaghe profonde e strutturali della storia d’Italia: piaghe che Cuoco vide nella rivoluzione napoletana, ma che nei due secoli che ci separano da allora non si sono mai davvero richiuse. E sono ancora aperte e sanguinanti nell’era del Coronavirus.
Mi concentro qui su tre dei tanti attori che si muovono sul vivace palcoscenico del Saggio: il popolo, la classe dirigente, i modelli stranieri. Del popolo Cuoco non pensa male: «è ordinariamente più saggio e più giusto di quel che si crede» (cap. XIX). Ma soprattutto, al di là del giudizio di valore che possa darsene, è fermamente convinto che del popolo non può farsi a meno nei fatti: immaginare di fondare un ordine stabile e libero che non sia radicato nel modo di essere, nei pensieri, sentimenti, costumi di un popolo è pura follia e garanzia di fallimento certo – come dimostra con chiarezza proprio la vicenda della rivoluzione napoletana.
Se vuol essere veramente tale, allora, la classe dirigente dovrà non soltanto accettare, ma accogliere e valorizzare l’essenza profonda di quel popolo e dargli ordinamenti, istituti, regole che abbiano radici profonde nella sua tradizione. E questo non potrà farlo, quella classe dirigente, se non si mette emotivamente in armonia col Paese: «Non si può mai giovare alla patria se non si ama, e non si può mai amare la patria se non si stima la nazione» (cap. XVI). È necessario insomma che l’orgoglio di un popolo sia nutrito, che la bontà delle sue tradizioni sia esaltata anche a paragone delle tradizioni altrui: soltanto così sarà possibile generare quell’amor proprio, quel rispetto di sé sulla cui base diventerà poi possibile innestare un ordine politico fecondo. E tanto più se quell’ordine vuol essere fondato sulla libertà, visto che «il principio fondamentale delle repubbliche … è il rispetto e l’amore pe’ suoi cittadini» (cap. XLIII), e che «in un governo in cui la volontà pubblica, o sia la legge, non ha e non dee avere altro sostegno, altro garante, altro esecutore che la volontà privata, non si stabilisce la libertà se non formando uomini liberi» (XVI).
Date queste premesse, è evidente come per Cuoco il terzo protagonista della nostra storia, i modelli stranieri, svolga il ruolo dell’antieroe: esaltare i costumi e le tradizioni di un altro popolo a detrimento del proprio e pensare che l’incivilimento consista nell’importare quei costumi e tradizioni da lì a qui è un errore catastrofico e doppio, poiché deprime e avvilisce il popolo e gli dà degli istituti che non potranno mai funzionare. Su questo tema possiamo leggere alcune delle pagine più note, belle ed efficaci del Saggio: «La nostra rivoluzione essendo una rivoluzione passiva, l’unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l’opinione del popolo. Ma le vedute de’ patrioti e quelle del popolo non erano le stesse: essi aveano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse. Quella stessa ammirazione per gli stranieri, che avea ritardata la nostra coltura ne’ tempi del re, quell’istessa formò, nel principio della nostra repubblica, il più grande ostacolo allo stabilimento della libertà. La nazione napolitana si potea considerare come divisa in due popoli, diversi per due secoli di tempo e per due gradi di clima. Siccome la parte colta si era formata sopra modelli stranieri, così la sua coltura era diversa da quella di cui abbisognava la nazione intera, e che potea sperarsi solamente dallo sviluppo delle nostre facoltà. Alcuni erano divenuti francesi, altri inglesi; e coloro che erano rimasti napolitani e che componevano il massimo numero, erano ancora incolti. Così la coltura di pochi non avea giovato alla nazione intera; e questa, a vicenda, quasi disprezzava una coltura che non l’era utile e che non intendeva» (XVI).
O ancora: «Quel nobile sentimento di orgoglio, che solo ispira le grandi azioni, facendocene credere capaci; quel sentimento, che solo ispira lo spirito pubblico e l’amor della patria; quel sentimento, che in altri tempi ci fece esser grandi e che oggi fa grandi tante altre nazioni di Europa, delle quali fummo un tempo e maestri e signori, era interamente estinto presso di noi. Noi diventammo a vicenda or francesi or tedeschi ora inglesi; noi non eravamo più nulla. Tante volte e sì altamente per venti anni ci era ripetuto che noi non valevamo nulla, che quasi si era giunto a farcelo credere … La mania per le nazioni estere prima avvilisce, indi ammiserisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in lei ogni amore per le cose sue» (cap. V).
E tanto più l’imitazione doveva fallire, nel caso della rivoluzione napoletana del 1799, poiché si trattava d’imitare un modello francese che in realtà proveniva dalle profondità della storia di quel Paese ed era funzionale ai suoi interessi, e che si presentava però al mondo camuffato da modello universale rispondente ai dettami della ragione umana. «I francesi», scrive Cuoco, «illusero loro stessi sulla natura della loro rivoluzione, e credettero effetto della filosofia quello che era effetto delle circostanze politiche nelle quali trovavasi la loro nazione». Formularono così un pensiero che era «formola algebraica» di quello della rivoluzione americana. Ma «Idee tanto astratte portano seco loro due inconvenienti: sono più facili ad eludersi dai scellerati, sono più facili ad adattarsi a tutt’i capricci de’ potenti; i turbolenti e faziosi vi trovano sempre di che sostenere le loro pretensioni le più strane, e gli uomini dabbene non ne ricevono veruna protezione. Chi guarda il corso della rivoluzione francese ne sarà convinto» (cap. VII).
Quanto all’esportazione di quel modello da parte degli eserciti francesi, poi, la teoria democratica non serviva ad altro che a legittimare una politica di potenza: «Il governo che allora avea la Francia, checché molti credessero, avea, almen per poco, rinunciato al progetto di democratizzazione universale, il quale, al modo come l’aveano i francesi immaginato, era solo eseguibile in un momento di entusiasmo … Ma il governo francese riteneva tuttavia il primiero linguaggio per vendere a più caro prezzo le sue promesse e le sue minacce: eravi sempre una contraddizione tra i proclami de’ generali e le negoziazioni de’ ministri, tra le parole date ai popoli e quelle date ai re; e, tra queste continue contraddizioni, si faceva, ora coi popoli ora coi re, un traffico continuo di speranze e di timori» (cap. III).
Né si può pensare di edificare la libertà su basi astratte, aggiunge Cuoco, proponendo una riflessione generale talmente densa d’implicazioni, nella sua rapidità, che potrebbe ispirare una riscrittura complessiva della storia europea del XIX e XX secolo: «Il male, che producono le idee troppo astratte di libertà, è quello di toglierla mentre la vogliono stabilire. La libertà è un bene, perché produce molti altri beni, quali sono la sicurezza, l’agiata sussistenza, la popolazione, la moderazione dei tributi, l’accrescimento dell’industria e tanti altri beni sensibili; ed il popolo, perché ama tali beni, viene poi ad amare la libertà. Un uomo, il quale, senza procurare ad un popolo tali vantaggi, venisse a comandargli di amare la libertà, rassomiglierebbe l’Alcibiade di Marmontel, il quale voleva esser amato “per se stesso”» (cap, XIX).
Il Saggio, in conclusione, è una poderosa riflessione sulla coscienza che una comunità ha di se stessa in relazione con le comunità vicine, sulla capacità (o incapacità) di una classe dirigente di compenetrarsi col proprio popolo, rispettarlo, amarlo e guidarlo, mettendone la storia, la tradizione, i costumi al servizio di un progetto d’incivilimento e di libertà. E si capisce, allora, per quale ragione resti così attuale a più di due secoli da quando fu scritto, e ancora nell’epoca del Covid-19. Perché l’amore e il rispetto di sé quale comunità nazionale, la costruzione di un rapporto virtuoso fra classe dirigente e classe diretta e fra “paese legale” e “paese reale”, la capacità di confrontarsi coi modelli stranieri senza diventare «a vicenda or francesi or tedeschi ora inglesi» restano in Italia, ancora oggi, questioni apertissime. Così come continua a sussistere il rischio che un popolo non guidato, non amato, incompreso, umiliato e offeso infine esploda e s’intruppi in una qualche riedizione postmoderna dell’esercito della Santa Fede al seguito di un tristo e tardivo epigono del cardinale Ruffo.
«Io forse non faccio che pascermi di dolci illusioni», sogna Cuoco in una delle pagine più struggenti del Saggio. «Ma, se mai la repubblica si fosse fondata da noi medesimi; se la costituzione, diretta dalle idee eterne della giustizia, si fosse fondata sui bisogni e sugli usi del popolo; se un’autorità, che il popolo credeva legittima e nazionale, invece di parlargli un astruso linguaggio che esso non intendeva, gli avesse procurato de’ beni reali e liberato lo avesse da que’ mali che soffriva; forse allora il popolo, non allarmato all’aspetto di novità contro delle quali avea inteso dir tanto male, vedendo difese le sue idee ed i suoi costumi, senza soffrire il disagio della guerra e delle dilapidazioni che seco porta la guerra; forse… chi sa?… noi non piangeremmo ora sui miseri avanzi di una patria desolata degna di una sorte migliore» (cap. XV).
Giovanni Orsina
INTRODUZIONE
Io imprendo a scriver la storia di una rivoluzione che dovea formare la felicitá di una nazione, e che intanto ha prodotta la sua ruina(1). Si vedrá in meno di un anno un gran regno rovesciato, mentre minacciava conquistar tutta l’Italia; un’armata di ottantamila uomini battuta, dissipata, distrutta da un pugno di soldati; un re debole, consigliato da ministri vili, abbandonare i suoi Stati senza verun pericolo; la libertá nascere e stabilirsi quando meno si sperava; il fato istesso combattere per la buona causa, e gli errori degli uomini distruggere l’opera del fato e far risorgere dal seno della libertá un nuovo dispotismo e piú feroce.
Le grandi rivoluzioni politiche occupano nella storia dell’uomo quel luogo istesso che tengono i fenomeni straordinari nella storia della natura. Per molti secoli le generazioni si succedono tranquillamente come i giorni dell’anno: esse non hanno che i nomi diversi, e chi ne conosce una le conosce tutte. Un avvenimento straordinario sembra dar loro una nuova vita; nuovi oggetti si presentano ai nostri sguardi; ed in mezzo a quel disordine generale, che sembra voler distruggere una nazione, si scoprono il suo carattere, i suoi costumi e le leggi di quell’ordine, del quale prima si vedevano solamente gli effetti.
Ma una catastrofe fisica è, per l’ordinario, piú esattamente osservata e piú veracemente descritta di una catastrofe politica. La mente, in osservar questa, segue sempre i moti irresistibili del cuore; e degli avvenimenti che piú interessano il genere umano, invece di aversene la storia, non se ne ha per lo piú che l’elogio o la satira. Troppo vicini ai fatti de’ quali vogliam fare il racconto, noi siamo oppressi dal loro numero istesso; non ne vediamo l’insieme; ne ignoriamo le cagioni e gli effetti; non possiamo distinguere gli utili dagl’inutili, i frivoli dagl’importanti, finché il tempo non li abbia separati l’uno dall’altro, e, facendo cader nell’obblio ciò che non merita di esser conservato, trasmetta alla posteritá solo ciò che è degno della memoria ed utile all’istruzione di tutt’i secoli.
La posteritá, che ci deve giudicare, scriverá la nostra storia. Ma, siccome a noi spetta di prepararle il materiale de’ fatti, cosí sia permesso di prevenirne il giudizio. Senza pretendere di scriver la storia della rivoluzione di Napoli, mi sia permesso trattenermi un momento sopra alcuni avvenimenti che in essa mi sembrano piú importanti, ed indicare ciò che ne’ medesimi vi sia da lodare, ciò che vi sia da biasimare. La posteritá, esente da passioni, non è sempre libera da pregiudizi in favor di colui che rimane ultimo vincitore; e le nostre azioni potrebbero esser calunniate sol perché sono state infelici.
Dichiaro che non sono addetto ad alcun partito, a meno che la ragione e l’umanitá non ne abbiano uno. Narro le vicende della mia patria; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de’ quali sono stato io stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei miei concittadini, che non debbo, che non posso, che non voglio ingannare. Coloro i quali, colle piú pure intenzioni e col piú ardente zelo per la buona causa, per mancanza di lumi o di coraggio l’han fatta rovinare; coloro i quali o son morti gloriosamente o gemono tuttavia vittime del buon partito oppresso, mi debbono perdonare se nemmen per amicizia offendo quella veritá che deve esser sempre cara a chiunque ama la patria, e debbono esser lieti se, non avendo potuto giovare ai posteri colle loro operazioni, possano almeno esser utili cogli esempi de’ loro errori e delle sventure loro.
Di qualunque partito io mi sia, di qualunque partito sia il lettore, sempre gioverá osservare come i falsi consigli, i capricci del momento, l’ambizione de’ privati, la debolezza de’ magistrati, l’ignoranza de’ propri doveri e della propria nazione, sieno egualmente funesti alle repubbliche ed ai regni; ed i nostri posteri dagli esempi nostri vedranno che qualunque forza senza saviezza non fa che distrugger se stessa, e che non vi è vera saviezza senza quella virtú che tutto consacra al bene universale.
(1) Questo libro fu scritto nell’anno 1800, e quindi si comprende facilmente di quale ruina si vuol parlare.