Una piazza senza Fini e un partito da ripensare

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Una piazza senza Fini e un partito da ripensare

22 Marzo 2010

Dopo la manifestazione di sabato a Piazza San Giovanni il Pdl non potrà essere più lo stesso di prima. E questo a prescindere se ci fossero un piazza un milione di persone o “solo” 150 mila. Quello che conta è che in piazza non c’era Gianfranco Fini.

Non solo non c’era lui in persona in virtù di un’improvvisa remora istituzionale, ma non se ne avvertiva neppure la presenza politica, quella delle sue idee, del suo ethos e del suo etnos. Ci potevano essere molti modi per il presidente della Camera si essere presente anche senza sfilare in corteo, o ci poteva quanto meno essere un suo accondiscendete silenzio. Invece il marchio che Fini ha voluto lasciare sulla manifestazione di sabato è stato quello dello sgarbo e del fastidio. Ad una giornalista che gli chiedeva un commento sull’iniziativa, Fini ha risposto sprezzante: “Non le dico cosa penso di questa domanda perché a farmela è una signora”.

Se questo è il modo in cui Fini intende andare alla conquista del partito di cui si ostina a definirsi co-fondatore, se questo è l’esordio della fase “dialogante” segnata dalla nascita di Generazione Italia dopo quella “provocatoria” di Fare Futuro, si tratta di una clamorosa falsa partenza.

Se poi la Lega, a piazza san Giovanni, ha trovato il suo spazio, se Bossi ha avuto il suo abbraccio, i suoi applausi e il suo “spot” come dice oggi Fini, difficile lamentarsene senza prendersi un po’ della colpa di aver lasciato vuoto quello spazio accanto al premier.

I finiani, che in piazza erano molti, hanno fatto la loro parte ma sembravano un po’ come Peter Schlemihl, il personaggio di Chamisso che si era venduto la sua ombra pensando di poterne fare meno. Le loro voci erano afone o affannose, sopra le righe o disperse e Fini sideralmente lontano per costituire un punto di riferimento.

Anche Italo Bocchino, quello con più senso della strategia, rischia di non suonare convincente in questa fase. Specie quando il nervosismo lo porta a fare dichiarazioni come quelle contro i portavoce di Verdini e Cosentino, rei, a suo dire, di averlo accusato di fotografare i posti vuoti nella manifestazione di Napoli della scorsa settimana. Forse un po’ meno di passione localistica gioverebbe al suo nuovo standing di apripista fianiano.

“Sto lavorando a cambiare il Pdl” dichiara in queste ore Gianfranco Fini, come a dire che gli altri perdono tempo in chiasso, giuramenti e canzonette. Ma se queste sono le premesse sembra molto improbabile che il Pdl voglia farsi cambiare come dice lui. Al contrario sono le sue scelte, i suoi uomini, le sue provocazioni, le sue fondazioni, in un crescendo spesso cacofonico, a produrre un cambiamento nel partito che certo non è destinato a premiare il presidente della Camera.

Dopo le regionali e anche dopo un’attenta analisi dei risultati, ci dovrà essere un momento non formale e non passeggero di chiarimento tra Berlusconi e Fini. Qualcosa di più sostanzioso e duraturo di uno dei molti inutili “patti” siglati nei mesi scorsi ad uso della stampa. Anche a costo di rimettere in discussione quest’anno di vita del Pdl, le sue regole, i suoi uomini, le sue gerarchie, le sue quote. In gioco ci sono i prossimi tre anni della legislatura e quelle riforme per cui gli italiani hanno votato Berlusconi nel passato e continuano a votarlo oggi. C’è in gioco la traccia che il berlusconismo è destinato a lasciare nei libri di storia, la sua eredità e il suo lascito.

Fini è certamente nell’asse ereditario del berlusconismo e certo (siamo nella metafora) non è così avventato da voler accelerare la diparita del capofamiglia. Ma allo stesso tempo deve avere a cuore il patrimonio politico accumulato fino ad oggi, aver cura di farlo fruttare, farne uso in modo rispettoso e avveduto. Perché se invece tutto questo non gli piace, urta la sua sensibilità democratica, il suo aplomb istituzionale, allora è più onesto far saltare il tavolo subito e prendere un’altra strada.

Quando, con la nascita di Generazione Italia, si è capito che Fini voleva mettere una sua ipoteca sulla leadership del partito, nessuno si è scandalizzato più di tanto. Visto però che “la democrazia interna” del Pdl è uno dei temi che più gli sta a cuore, non può pensare che basti alzare una mano per ottenere ciò che vuole, né pretendere che non ci siano altre legittime ambizioni in ballo. Al momento si vedrà. Ma molto dipende da come Fini intende arrivarci a quel momento e per ora la strada è quella sbagliata.