
Una politica leggera contro droghe tutt’altro che leggere

05 Agosto 2007
di Mirko Testa
Chiamatela pure marijuana, hashish, “maria” o semplicemente cannabis, ma non
dite che è una droga leggera. Si tratta della sostanza illecita più venduta al
mondo e la sua diffusione nel nostro Paese è in drammatico e costante aumento,
complici soprattutto le famiglie sempre più instabili e una certa leggenda rosa
che tende a sminuirne il rischio di dipendenza e i pericolosi effetti fisici e
psichici. Un quadro a tinte fosche quello sul consumo di cannabis in Italia
fotografato dalla Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle
tossicodipendenze, presentata nel luglio scorso dal ministro per la Solidarietà
sociale Paolo Ferrero, che mostra tra il 2001 e il 2005 “un aumento dei consumi
di cannabis”, a cui va associato “un aumento dell’uso di eroina e cocaina
sporadico/occasionale”.
Una seduzione quella a base di cannabis e cocaina cui troppi italiani
sembrano non saper resistere, ma che ha inizio spesso con lo spinello scambiato
a scuola e provato di questi tempi da un italiano su tre: il consumo della
canna è cresciuto in quattro anni del 45% (quasi 3 milioni di persone in più si
sono avvicinate a questa droga), si legge nella Relazione. Per quanto
riguarda i consumi aumenta il numero dei soggetti (di età compresa tra i 15 ed
i 44 anni): se nel 2001 era il 22% degli italiani ad aver fatto uso di cannabis
%0Aalmeno una volta nella vita, nel 2005 la percentuale è salita fino al 32%,
aumento che si riferisce anche al consumo nell’ultimo anno e nell’ultimo mese.
Il fenomeno, incentivato dalla disinformazione, prende sempre più piedi però
fra i giovani. Il 24,5% degli studenti intervistati ha ammesso di aver fumato
cannabis almeno una volta negli ultimi dodici mesi e fra loro, il 26% dice di
averlo fatto più di venti volte. Nella Relazione annuale al Parlamento sullo
stato delle tossicodipendenze per il 2005, si riferiva che in quell’anno
145 mila studenti avevano fatto uso combinato di più sostanze (nel 98% dei casi
una era la cannabis) e che in particolare 75.000 studenti (il 3% del totale)
avevano fatto uso quotidiano di cannabis. Non stupisce quindi se, nel 2006, in
merito alle segnalazioni per possesso di sostanze stupefacenti l’attività delle
Prefetture ha riguardato per la maggior parte casi di detenzione di cannabis
(75%).
In Italia, in generale, la cannabis risulta essere la sostanza di
iniziazione per l’85% dei consumatori di cocaina e per il 74% dei consumatori
di eroina. Mentre, in base alle indagini condotte negli ultimi anni soprattutto
all’interno delle discoteche, sembra fortemente correlato anche il consumo in
età adolescenziale di cannabis e l’utilizzo successivo di ecstasy e pasticche a
base di anfetamine. Un dato quello del consumo di cannabis che si cela e spesso
scompare dietro l’alto tributo di sangue (nel 2006 sono stati in tutto 517 i
decessi per overdose) e dei costi sociali da “salasso economico” legati all’uso
di sostanze illegali che, secondo la Relazione, sarebbero stimati intorno ai 10
miliardi e 500 milioni di euro.
Per quanto riguarda, invece, i soggetti presi in carico nel 2006 dai Servizi
per le Tossicodipendenze (SerT) presso le Asl italiane, si parla di un trend in
aumento dal 2001 (il 14% formato da nuovi utenti, l’86% da utenti già in carico
dall’anno precedente o rientrati), il 10% dei quali hanno richiesto il
trattamento per la cannabis. Inoltre, tra gli utenti dei SerT che sono stati
sottoposti a trattamenti diagnosticoterapeutico-riabilitativi non
farmacologicamente assistiti (il 38%), il 19% era costituito da consumatori di
cannabis, per la maggior parte in trattamento con interventi di servizio
sociale o lavorativi.
Così, mentre a Montecitorio i parlamentari si mettono in fila per i test
antidroga e un deputato si abbandona per “solitudine” alla dolce vita di
felliniana memoria, “il nostro Paese è l’unico a non avvisare i giovani che,
con lo spinello, rischiano la malattia e il danno cerebrale, cognitivo, e
caratteriale”, osserva il professor Claudio Risé , psicoterapeuta e firma nota
su diversi quotidiani e riviste nazionali per i suoi interventi su temi di
psicologia sociale ed educativa, nel suo ultimo libro intitolato Cannabis:
Come perdere la testa e a volte la vita (Edizioni San Paolo, Cinisello
Balsamo, 2007, pp. 220, euro 12,50). “La disattenzione dei politici, la sdrammatizazione
dei media e l’apologia del fumo da parte dello star system fanno sì che in
Italia la cannabis non sia considerata un problema”, osserva ancora Risé, che è
docente di Psicologia dell’Educazione alla Facoltà di Medicina e Chirurgia
dell’Università di Milano Bicocca.
In un’Europa, ormai divenuta il principale mercato per lo smercio di hashish
al mondo e dove l’andamento del consumo sembra essere legato alle politiche di
maggior o minor intervento degli Stati, l’Italia continua a muoversi in direzione
ostinata e contraria senza progetti di ampio respiro, e mostrando al riguardo
incoerenze e assenze nell’ambito della educazione, della comunicazione e della
sanità. Ne è riprova il decreto del Ministro della Sanità, Livia Turco,
dell’agosto 2006 – successivamente bocciato dal Tar del Lazio nel marzo 2007 –
che aveva innalzato da 500 a 1.000 milligrammi la dose di cannabis considerata
per uso personale ed entro la quale non sarebbe scattata alcuna sanzione
penale. E stiamo parlando della stessa Livia Turco che nell’introduzione alla
Relazione del 1999 – allora ricopriva l’incarico di Ministro per la Solidarietà
sociale – parlava di “impegno di informazione e prevenzione” contro la
diffusione delle “nuove droghe”, dando particolare sottolineatura alla necessità
di cercare “nuovi linguaggi e nuove modalità per comunicare con i ragazzi e le
ragazze, nella consapevolezza che una vera prevenzione deve coincidere con
un’attenzione vera alla vita dei giovani”.
Una tutt’altro che amara constatazione affiora però sulla bocca del ministro
Ferrero, il quale, nella recente presentazione della Relazione al Parlamento,
ha ammesso: “Siamo […] – insieme a Malta – l’unico Paese che non si è dotato
entro il 2005 dell’organico piano di lotta alle droghe quadriennale previsto
dall’Unione Europea”. Sull’altro fronte, invece, paesi come la Germania,
l’Austria, la Francia, il Regno Unito e i Paesi Bassi – terra della
liberalissima Olanda, patria dei coffee-shop – vedono il diffondersi di centri
di consulenza specializzati in droghe particolari, “corsi sulla cannabis” o
persino siti web di auto-aiuto, nel tentativo di correre ai ripari di fronte ai
dati emersi sulla relazione tra uso di cannabis e patologie psichiatriche. E a
quanto pare anche all’Ue si sono accorti dei nostri ritardi se nella Relazione
annuale 2006: evoluzione del fenomeno della droga in Europa, curata
dall’Osservatorio Europeo sulle Droghe e le Tossicodipendenze, si afferma che
“il modello culturale dominante in Italia è privo dell’elemento centrale
necessario perché questi interventi preventivi ‘leggeri’ siano efficaci: la
condanna sociale della cannabis, condivisa e diffusa dalle élites dirigenti”.
La cannabis si conferma quindi di diritto la sostanza stupefacente più
gettonata, e non solo tra i ragazzi. Stando alla Relazione annuale al
Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia per l’anno 2005:
“Circa il 35-40% della popolazione giovanile scolarizzata tra i 15 e i 19 anni
approva l’uso di cannabis e lo stima un comportamento non a rischio per la propria
salute”. Nel corso degli ultimi anni poi quasi cinque milioni di italiani hanno
cambiato il proprio giudizio nei confronti della pericolosità dell’uso di
cannabis (nel 2001 il 71% degli uomini e l’80% delle donne esprimeva una forte
disapprovazione, nel 2005 queste percentuali sono scese al 64-68%). Spesso la
canna viene infatti assimilata alla classica sigaretta, sebbene i danni causati
dalla cannabis siano superiori a quelli del tabacco (3-4 sigarette di cannabis
equivalgono a 20 sigarette di tabacco per i danni polmonari arrecati).
“La leggenda mediatica e culturale, però, che in Italia parla di questa
sostanza è invece rosa […], si tratta di una narrazione a lieto fine cui la
classe dirigente italiana %28particolarmente quella che si occupa di informazione
e di politica) non vuole rinunciare”, afferma il professor Risé che punta il
dito contro quegli “ostinati partigiani della cannabis”, retaggio dell’“egoismo
umanitario degli anni ’70”.
A dispetto dell’allarmismo lanciato dalla comunità scientifica
internazionale – soprattutto a partire dalla metà degli anni ’90 -, nel Belpaese
solo nel 2002 la Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze
in Italia, elaborata dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (in carica
era allora Roberto Maroni), si è occupata per la prima volta della chimica del
tetraidrocannabinolo (THC), descrivendone con precisione gli effetti sul
cervello, constatando la conseguente dipendenza indotta dalla sostanza e
l’associazione tra consumo di cannabis e sviluppo di problemi psichiatrici.
A questo proposito il volume del professor Risé offre un ampio e documentato
campionario: l’assunzione di cannabis nell’età adolescenziale aumenta, infatti,
in modo proporzionale alla dose, il rischio di sviluppare la schizofrenia,
oppure la successiva comparsa di depressione e di attacchi acuti di ansia e
panico, così come il rischio di dipendenza, con irritabilità, ansia, difficoltà
di dormire, aumento di aggressività e delinquenza. Per non parlare poi dell’indebolimento
del sistema immunitario e maggiori possibilità di contrarre infezioni; dei
disturbi cognitivi e riduzione della capacità di ragionamento, di
concentrazione, di immagazzinamento delle informazioni necessarie a pensare,
ridotta espressività del linguaggio; e del contributo all’abbassamento del
livello di testosterone e all’infertilità maschile. Nelle ragazze, invece,
porta a irregolarità nel ciclo mestruale e nell’ovulazione tali da condurre
all’infertilità, mentre nelle donne incinte può condurre al rischio di aborto e
gravidanza extrauterina o può provocare nel bambino, sin dai primi anni, gravi
deficit psicologici e cognitivi, iperattività, disturbi dell’attenzione ed
eccessiva impulsività, ritardi nello sviluppo del linguaggio, problemi di
integrazione sociale.
In conclusione, non bastano più delle voci isolate nel deserto. Servono
messaggi (e direi anche testimonianze di vita) più chiari dall’alto, perché una
felicità fatta di un’ora di risate, acquistata per pochi euro e mandando in fumo
la propria vita, richiede un prezzo troppo alto da pagare.