Una terra senza pace: perché Abbas è andato alle Nazioni Unite

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Una terra senza pace: perché Abbas è andato alle Nazioni Unite

05 Ottobre 2011

Benché diplomaticamente problematico per le potenze occidentali, il tentativo del presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, di far dichiarare unilateralmente alle Nazioni Unite uno Stato palestinese, ha ricevuto ampie simpatie. Dopo tutto, cos’altro avrebbe potuto fare? Secondo la narrativa generalmente accettata, la pace in Medio Oriente è resa impossibile da un inflessibile Israele a guida Likud che impedisce la nascita di uno Stato palestinese ma che permette la costruizione di nuovi insediamenti israeliani.

È abbastanza incredibile come questa madornale violenza alla verità sia diventata un’opinione prevalente. Si noti che Benjamin Netanyahu è riuscito a portare la sua coalizione a guida Likud a un’apertura per il riconoscimento dello Stato palestinese, creando per la prima volta nella storia d’Israele un consenso nazionale per una soluzione "due Stati per due popoli". Sempre lui è stato l’unico primo ministro israeliano ad aver accettato il congelamento di nuovi insediamenti – 10 mesi – cosa che nessun governo laburista o a guida Kadima ha mai fatto.

A ciò Abbas ha risposto boicottando le trattative per nove mesi, per poi presentarsi al decimo, e uscire dalla stanza quando il congelamento era ormai terminato. La scorsa settimana Abbas ha ribadito che continuerà a boicottare le trattative di pace a meno che – e ciò come precondizione –Israele non faccia decadere le sue pretese su qualsiasi territorio che vada al di là delle linee del 1967. A dire, per esempio, che il quartiere ebraico di Gerusalemme è territorio palestinese.

Tutto questo non è solo assurdo, ma viola anche qualsiasi accordo di pace assunto in precedenza tra le parti. Ognuno di questi accordi stipula infatti che tali richieste debbano essere soggette a negoziazione, e che non siano invece poste come precondizioni. Abbas insiste fermamente sul cosiddetto “diritto al ritorno”, che distruggerebbe demograficamente Israele sommergendolo con milioni di arabi, trasformando l’unico Stato ebraico del mondo nel 23esimo Stato arabo di questo pianeta. Abbas ha dichiarato ripetutamente, come avvenuto la scorsa settimana a New York: “Noi non riconosceremo uno Stato ebraico”.

Niente di nuovo sotto il cielo. Anzi, questo atteggiamento è perfettamente in linea con la lunga storia del negazionismo palestinese.

Si dia un’occhiata a quanto segue:

Campo David, 2000. In un vertice patrocinato dagli Stati Uniti, il premier Ehud Barak propone a Yasser Arafat uno Stato palestinese comprendente la Cisgiordania e Gaza e, a sorpresa, la divisione un tempo inconcepibile di Gerusalemme. Arafat rifiuta. Non solo, ma non fa alcuna controfferta, con ciò dimostrando la sua mancanza di serietà rispetto alla ricerca di un accordo. Non pago, nel giro di due mesi, lancia una feroce guerra terroristica (la prima intifada, ndr.) che lasciò sul terreno un migliaio di israeliani.

Taba, 2001. Viene proposto un accordo addirittura più succulento – parametri Clinton. Arafat ancora una volta lascia il tavolo.

Israele, 2008. Il primo ministro Ehud Olmert capitola alle richieste palestinesi – 100 per cento della Cisgiordania (con scambio di terre), la statualità palestinese, la divisione di Gerusalemme con la parte musulmana, nuova capitale della nuova Palestina. E incredibilmente, offre di cedere i luoghi santi della città, tra cui il Muro Occidentale – il luogo più sacro dell’ebraismo, la sua Kaaba – a un organismo internazionale al quale siedono Giordania e Arabia Saudita.

Abbas ha accettato? Certo che no. Se fosse stato consenziente, il conflitto sarebbe finito da un bel pezzo e la Palestina sarebbe già membro delle Nazioni Unite.

Questa non è una storia antica. Tutti e tre le trattative di pace si sono verificate negli ultimi dieci anni. E ognuna di esse contraddice del tutto l’odierna e irragionevole favoletta che vuole “l’intransigenza” di Israele come l’ostacolo da superare per il raggiungimento della pace.

Tratto dal Washington Post

Traduzione di Laura Barbuscia