Una Turchia che nega il passato non dà garanzie sul futuro
21 Gennaio 2007
di Carlo Meroni
Partiamo dal principio. O meglio, dalla fine. La fine dell’impero ottomano. Bisogna fare un salto indietro di un secolo tondo tondo e comprendere quel movimento rivoluzionario di allora e chiamato dei “giovani turchi”. Questi rivoluzionari, perlopiù intellettuali e militari, erano desiderosi di lasciarsi alle spalle un impero in palese decadenza ed ai suoi ultimi spiccioli di vita, e che ormai era arretrato al cospetto delle aspettative recate dal nuovo secolo, per creare una sorta di ben più moderna “federazione” di popoli che fosse composta da molti di quelli già precedentemente inclusi nell’impero ottomano. C’era un piccolo particolare stridente con la nascita di questa “federazione”: i “giovani turchi” erano molto nazionalisti. Ecco quindi che chiunque, a seguito del disfacimento dell’impero, posava lo sguardo altrove si scontrava inevitabilmente con le loro intenzioni di restaurazione della grande Turchia. I “giovani turchi” si nutrivano di panturchismo e turanismo, un’ideologia che si basava sulla convinzione che “quando tutti i popoli di lingua turca saranno uniti in una stessa entità nazionale estesa dall’Asia Centrale al Mediterraneo, ritornerà l’età dell’oro in cui Turan (antenato dei Turchi) lottava contro Ario e si estenderà il dominio su tutta l’Asia”.
Dal dire al fare il passo fu breve: già nel 1909, 30.000 armeni vennero uccisi in Cilicia risolvendo così sbrigativamente un “dissenso interno”. Poi fu tempo per i “giovani turchi” di guardare all’esterno, e si palesò la chiara intenzione di muovere verso l’Azerbaigian (sotto controllo russo) per avere sbocchi oltre che su mar Mediterraneo e Nero, anche sul Caspio. Tra i due litiganti, si trovò l’Armenia, e non finì per niente con la “goduria” di cui narra il noto proverbio. Nel gennaio 1915 un’importante offensiva turca venne sbaragliata dai russi. La colpa, ricadde gratuitamente sugli armeni, nonostante questi (pur non belligeranti) avessero formalmente dichiarato appoggio alla Turchia. Iniziò così una sistematica eliminazione di questo popolo: gli eserciti disarmati e poi eliminati di nascosto, la ricca ed operosa borghesia cittadina soppressa e depredata, i cittadini qualunque colpevoli solo della loro origine.
Nella notte fra il 24 (giorno rimasto nella storia come commemorativo del genocidio) ed il 25 aprile 1915, furono arrestati e giustiziati oltre 2000 notabili armeni. Fino al luglio del 1915 gli armeni delle provincie più orientali vennero sterminati e si salvarono solo i pochi che ripararono per tempo in territorio russo. Vennero diffusi nelle città dei bandi che anticipavano la loro deportazione, ed anticipavano l’organizzazione logistica secondo la quale avrebbero dovuto formarsi colonne di uomini utili ad abbandonare le città stesse. Fino al luglio del 1916 lunghe colonne furono forzate ad andarsene e raggiungere la città di Aleppo (attualmente Halab, in Siria). Senza cibo ne acqua, molti prigionieri morirono di fame nel deserto lungo il cammino, gli altri bruciati vivi o rinchiusi in caverne.
Bilancio totale dell’operazione, avallata e promossa dal ministro dell’interno turco Talaat: quasi 1.500.000 di armeni eliminati con ferocia o fatti volontariamente perire di stenti, oltre 100.000 bambini orfani prelevati da famiglie turche cambiando quindi totalmente la loro lingua, fede, cultura e tradizioni.
Il papa Benedetto XV cercò di intervenire scongiurando il massacro, ma venne contestata immediatamente la sua ingerenza in quanto per i turchi si trattava di “guerra santa”. Tra il 1920 ed il 1922, il presidente della nuova nazione turca, e considerato ancor oggi “padre della patria” Kemal Ataturk completò l’opera con l’invasione delle neonata repubblica d’Armenia (oltre ad altri territori del Kurdistan) e con il massacro di Smirne. Non c’era più traccia di armeni in Turchia ed il 90% del territorio dell’Armenia storica era ormai situato in territorio turco, mentre il resto passò poi sotto il controllo sovietico.
L’Europa intera nel frattempo assisteva silente avallando il massacro.
Ritorniamo ai nostri giorni.
Benedetto XVI (…corsi e ricorsi storici…) ha incontrato venerdì scorso 19 gennaio, Muammer Dogan Akdur, nuovo ambasciatore di Turchia presso la Santa Sede. Come suo solito, il Santo Padre ha saputo dispensare, aiutato dal suo rassicurante sorriso, ampie dosi della sua ormai proverbiale pacifica ed inossidabile fermezza. Dopo aver ricordato e ringraziando nuovamente per l’accoglienza ricevuta dalle autorità turche a fine novembre, riaffermato il massimo rispetto della Chiesa Cattolica per la religione islamica ed invitato tutti gli uomini di buona volontà ad operare per una vera pace; Benedetto XVI ha poi affondato il colpo senza troppi giri di parole, come suo solito.
Pochi punti e chiaramente enunciati, molto arrosto e poco fumo:
-Pieno rispetto della libertà religiosa, per ora esistente solo sulla carta costituzionale turca ma nell’effettivo mai applicata realmente.
Ad un turco cristiano non è concesso, ad esempio, di intraprendere la carriere militare; ai sacerdoti vengono registrate e trascritte le omelie che poi passano sotto il controllo di una “authority” governativa; la religione professata è segnalata sulla carta d’identità, con le conseguenti forme di sottile razzismo verso i cristiani una volta “scoperti”; minoranze cattoliche che desiderano assistere alla messa e comunicarsi devono fare spesso viaggi di oltre cinquanta chilometri; le parrocchie possono gestire spazi per offrire ai più giovani attività sportive o ricreative sul modello dei nostri oratori, ma a patto che non si eserciti in alcun modo l’insegnamento della religione cattolica (catechesi, lectio divina, momenti di preghiera…).
-Pieno riconoscimento di uno statuto giuridico per la Chiesa cattolica turca, che attualmente non può contare su alcun tipo di personalità giuridica, allo scopo di vedere istituita una istanza di dialogo ufficiale tra la conferenza dei vescovi e le autorità turche, trovare soluzioni ai diversi problemi che possono porsi, e proseguire con buoni rapporti fra le parti.
Alcuni esempi: un atto di compravendita di un terreno, deve essere firmato da almeno un cittadino turco; le più diverse richieste di tipo pratico-logistico provenienti da parroci o vescovi, e destinate agli uffici pubblici preposti a tutelare la vita di una confessione religiosa in uno stato, sono puntualmente e costantemente inascoltate; le chiese devono essere presidiate, perché quelle che vengono lasciate vuote per mancanza di clero vengono immediatamente convertite in moschee, come è successo a numerosissime chiese antiche; numerosi documenti catastali di chiese sono stati distrutti per cancellare tracce della loro esistenza passata; alcuni immobili regolarmente acquistati dalla sede vescovile di Tarso sono stati espropriati e, nottetempo, rasi al suolo.
Il Papa ha poi concluso così:
“I credenti delle differenti religioni devono sforzarsi di lavorare assieme per la pace, cominciando dalla denuncia della violenza, troppo spesso usata in passato con il pretesto di motivazioni religiose, ed imparando a conoscersi meglio ed a rispettarsi di più. Le religioni devono poi unire i loro sforzi per agire in favore del rispetto dell’uomo, creato ad immagine dell’Onnipotente, e per far riconoscere i valori fondamentali che reggono la vita delle persone e delle società. Il dialogo comincia nella vita di tutti i giorni dalla stima e dal rispetto reciproci che si portano i credenti di ogni fede, condividendo la stessa vita e lavorando insieme”.
Lo stesso giorno, per le strade di Istanbul, è stato barbaramente assassinato con tre colpi di pistola fra il volto ed il collo Hrant Dink, giornalista e direttore della rivista “Agos”. Dink, che dichiarò più volte di essere un “cittadino turco di sangue armeno”, era stato condannato nel 2005 a sei mesi con la condizionale per “insulto all’identità nazionale turca”. Aveva semplicemente espresso, tramite un articolo apparso sulla sua rivista, le sue considerazioni e le sollecitazioni alla memoria collettiva relativamente ai palesi massacri commessi dai turchi in anatolia nel secolo scorso. Nel dicembre 2006 subì il terzo processo in un anno e mezzo, sempre per la violazione del famigerato articolo 301 del codice penale che punisce l’offesa all’identità turca. Rischiava di essere condannato a ben quattro anni di reclusione per aver soltanto voluto dare risonanza alla verità: fatti di cui avete letto poco fa e dei quali esistono numerosissimi dati incontrovertibili, fotografie e testimonianze di sopravvissuti. Dink ha avuto forse la sfortuna di essere meno famoso del premio nobel Ohran Pamuk, anch’egli incriminato per lo stesso reato a causa di dichiarazioni sempre relative al genocidio armeno. Ma per salvare la faccia davanti ad un premio nobel con visibilità planetaria, il “reato” di Pamuk è stato sospeso lo scorso 7 febbraio. Hrant Dink invece, che era già stato vittima di minacce per nulla velate, sputi all’uscita del posto di lavoro ed altre numerose ingiurie, non aveva alcun appeal mediatico extranazionale, e così si proseguì con il rifiuto della vigilanza richiesta sotto la sede di “Agos”, il processo andò avanti e con esso la relativa diffamazione a mezzo stampa e tivù. Finché venerdì un ragazzo di circa 25 anni gli ha sparato tre colpi e poi ha gridato “giustizia è fatta, ho ucciso un falso musulmano”.
Ecco perché le parole di Benedetto XVI vanno lette e meditate da tutti, europei e turchi di buona volontà, con la massima attenzione e con il serio intento di far perseguire quanto prima alla Turchia, nazione ricchissima di un inestimabile patrimonio storico e culturale, non tanto il chiacchierato ingresso nell’UE, ma il ben più urgente congiungimento al gruppo di nazioni che vogliono, realmente e nella verità oggettiva dei fatti, sposare la civiltà, la tolleranza, la laicità dello stato a salvaguardia di una vera libertà religiosa.
Molti tedeschi pagano ancora oggi, forse ingiustamente, il terribile peso della shoah messo sulle loro spalle dai loro nonni. La chiesa con Giovanni Paolo II ha chiesto più e più volte perdono per i crimini commessi nei secoli più oscuri della sua storia. Il passato non va dimenticato ma ci si può riconciliare con esso, se si dimostra la volontà di essere diversi.
%09 La Turchia non può assumere ancora oggi una posizione negazionista nei confronti del genocidio armeno, o comportarsi in modo vile con le minoranze cattoliche del paese, pretendendo però allo stesso tempo il riconoscimento ed il rispetto della comunità internazionale o addirittura l’entrata in Europa.
Certamente i turchi hanno molte speranze di riuscire nei loro intenti economico-politici, salvaguardando comunque i loro “usi e costumi” interni.
Perché?
Perché di Benedetto XVI ce n’è uno solo, purtroppo. Mente a Bruxelles abbiamo un esercito di euroburocrati che da un lato salvano la faccia alla “grammatica” esprimendo cordoglio per l’accaduto, deplorando le restrizioni della libertà…e così via. E dal lato della “pratica” si coccolano un paese che è due volte e mezzo più esteso dell’Italia, situato in una posizione da sempre strategica, con un’offerta di 70 milioni di abitanti bramosi di accedere quanto più possibile ai mercati occidentali.
Il Papa fa “l’arrosto”…loro solo dell’inutile e nocivo “ fumo”. Non ci credete? Se avete un’oretta di tempo, leggetevi la relazione del parlamento europeo “sui progressi compiuti dalla Turchia in vista dell’adesione”. C’è da ridere…o da piangere. Dipende se siete turchi o meno.