Unifil: giusto ridurre le truppe, ma il ritiro è impensabile

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Unifil: giusto ridurre le truppe, ma il ritiro è impensabile

26 Marzo 2008

Quando si ha che fare con una missione ONU viene facile pensar male. I precedenti, del resto, non sono buoni, alla luce dei tanti disastri di cui la storia delle missioni con il casco blu è costellata. Fino all’estate 2006, anche in Libano non si può certo dire che l’ONU abbia avuto grande successo: UNIFIL è stata una semplice missione di osservazione di cui sia Hezbollah che l’esercito israeliano si sono fatti beffe. Oggi, però, la situazione è cambiata: il mandato è diverso, le regole sono nuove e la sua composizione è più robusta. Si fa ancora bene a pensar male di UNIFIL? La missione ha una qualche utilità? E cosa possono fare i 2.500 militari italiani? Le risposte ce le fornisce direttamente il generale Graziano, il comandante di UNIFIL, accogliendoci nel suo ufficio del comando di Naqoura. “UNIFIL è un’operazione di peace keeping sotto il capitolo 6 della Carta delle Nazioni Unite”. “Il mandato è chiaro, si tratta di un’operazione di interposizione che presuppone il consenso delle parti [tra cui Hezbollah, nda] per il mantenimento del cessate il fuoco”. Niente peace enforcing quindi, ma una missione il cui scopo è quello di mantenere l’attuale situazione di assenza di ricorso alle armi e creare le condizioni perché da un cessate il fuoco temporaneo si passi ad un cessate il fuoco permanente. I caschi blu possono intervenire soltanto nei casi in cui si materializzino evidenti violazioni della risoluzione ONU 1701 o atti ostili. Ma se una pattuglia si imbatte in una macchina carica di armi che succede? “Noi possiamo arrestare gli occupanti e requisire il carico e consegnare il tutto alle LAF”. “Perché UNIFIL si muove in supporto alle forze libanesi. Nel suo mandato non rientra la possibilità di ispezionare abitazioni o edifici alla ricerca di armi o razzi. A meno che non via sia una diretta evidenza”. Farlo significherebbe scontrarsi con Hezbollah pagando costi probabilmente altissimi, insostenibili per la gran parte dei paesi che forniscono forze ad UNIFIL, a cominciare ovviamente dal nostro. Ne sanno qualcosa gli spagnoli che hanno pagato col sangue l’eccessiva larghezza con cui ad inizio missione stavano interpretando il mandato.

Il disarmo di Hezbollah è un argomento piuttosto delicato. La risoluzione 1701, come da tradizione ONU, è a dir poco ambigua. Si limita a richiedere che a sud del Litani non operi personale armato che non sia quello delle LAF o di UNIFIL (per cui a nord del Litani gli stessi Hezbollah sono teoricamente autorizzati a portare armi…), ma allo stesso tempo richiama la 1559 che chiede la smilitarizzazione di tutte le milizie libanesi, e quindi non solo di Hezbollah. In queste condizioni disarmare la milizia del Partito di Dio significa dare tempo al tempo ed attendere che maturino determinate condizioni politiche, sia sul piano interno che sul piano esterno. Sono molti, a cominciare dallo stesso generale Graziano, a leggere tra le righe delle sue parole, che ritengono la rinuncia alle armi da parte di Hezbollah come lo stadio finale di un processo che, depotenziando man mano le fonti di conflittualità nell’area, faccia progressivamente venire meno la necessità per un qualunque attore politico di disporre di una milizia armata. Soprattutto, e qui il generale insiste fortemente, è necessario che le Forze Armate libanesi si rafforzino. Il disarmo di Hezbollah passa anche da qui. Più armi ed equipaggiamenti per le LAF. E sarebbe bene che in questo i paesi occidentali facessero seguire alle parole i fatti dando armi degne di tal nome alle forze libanesi che, da questo punto di vista, adesso non se la passano certo bene. Il generale va oltre e ci dice di essere pronto a prendere un’iniziativa con i singoli paesi europei affinché modifichino in parte le restrittive legislazioni che regolano l’export di armamenti verso alcuni paesi. Del resto, aggiungiamo noi, se l’Italia vende missili e aerei non pilotati al Pakistan, può fare altrettanto con il Libano. In prospettiva l’equazione giusta può essere proprio questa: più forza per le LAF, meno per Hezbollah. Certo, l’instabilità politica libanese in ciò non aiuta, ma si potrebbe lo stesso fare di più. Ad oggi in Libano, soprattutto dopo la vittoria di Nahr El Bared, le LAF sono l’unica istituzione in qualche misura super partes. Un punto di riferimento importante, catalizzatore di un senso nazionale che sta tentando disperatamente di affermarsi. Non dimentichiamo che gran parte del prestigio di cui gode Hezbollah in Libano dipende dal fatto che le sue milizie sono state le uniche a battersi sul serio contro gli israeliani ai tempi dell’occupazione. Non c’erano certo le forze regolari libanesi a farlo ed è in questi anni che il bacino di reclutamento di Hezbollah si è allargato a dismisura così come i trasferimenti di armi dalla Siria, che prima appoggiava e finanziava Amal, e dall’Iran. La vittoria, ottenuta a carissimo prezzo, contro i palestinesi fondamentalisti di Fatah Al Islam viene ormai considerata un momento costitutivo dell’identità nazionale. Di fatto, per la prima volta l’esercito e non una milizia è stato protagonista di una battaglia vincente. Non è un caso che la vendetta di questi estremisti, e dei loro amici siriani fuori del Libano, si sia accanita proprio contro chi, il generale Hajji, aveva pianificato e condotto l’operazione.

Il quadro è complesso, dunque, ma non così disperato come si possa pensare. UNIFIL, pur con i suoi difetti, tipici di gran parte delle missioni dell’ONU, si è finora dimostrata in grado di rassicurare le parti in causa, compreso Israele che, adesso, sui suoi confini ha i caschi blu italiani e francesi e non le trincee di Hezbollah. UNIFIL è pertanto un fattore di stabilità che può contribuire a rendere più certo e prevedibile l’ambiente; soprattutto è l’unico foro dove libanesi e israeliani possono parlarsi. Non ce ne sono altri. E in un simile contesto, si tratta di un buon risultato.

Certo, qui in Libano tutto è fragile, tutto è precario, mentre l’UNIFIL del generale Graziano può essere considerata una certezza. Le dinamiche libanesi molto spesso dipendono dalla congiuntura esterna. Se la crisi sul sospetto programma nucleare iraniano dovesse nuovamente riacutizzarsi, il Libano sarebbe il primo a sperimentarne le conseguenze. Ma oggi per Hezbollah sarebbe molto più difficile riprendere le ostilità con Israele di quanto non lo fosse due anni fa, quando UNIFIL era una comparsata raccogliticcia di semplici osservatori sotto il cui naso i miliziani sciiti scavavano bunker e lanciavano razzi contro Israele. Inoltre, sono in molti ad osservare come in questo momento il Partito di Dio sia tutt’altro che un monolite e come al suo interno si sia materializzata una spaccatura senza precedenti. Da una parte, troviamo la leadership storica, legata a doppio filo a Teheran, che intende proseguire sulla linea attuale rendendo permanente il conflitto con Israele e tentare, non adesso, ma tra qualche anno, la carta del secondo round con Tsahal. Dall’altra, le nuove generazioni che preferirebbero allentare la conflittualità con Israele, accentuare sempre di più la caratura politica del movimento e, perché no, iniziare a godere dei benefici della pace e della tranquillità smettendo i panni dei picchiatori per procura di Teheran. I segnali di questa spaccatura non sono evidenti, ma riescono comunque a filtrare dal grande calderone polveroso e assolato del Libano del Sud, dove ci confermano sottovoce che l’uccisione di Imad Mugniyeh a Damasco il 13 febbraio scorso sia stata appunto un sanguinoso regolamento di conti interno, effettuato con il beneplacito di Siria e Iran. Comunque sia, resta il fatto che gli attori in gioco, UNIFIL, Hezbollah, Israele, camminano su un filo sospeso nel vuoto. Basta un errore di calcolo, una provocazione, magari fatta da soggetti terzi come Al Qaeda, e tutto salta, con rischi enormi per la missione. I caschi blu italiani ne sono consapevoli. Di tanto in tanto, e ben lontano dalle telecamere, vengono condotte esercitazioni per simulare attacchi contro le nostre basi.

Lo scenario peggiore, tuttavia, è rappresentato dal riaccendersi delle ostilità tra Israele e Hezbollah. Che fare in quel caso? Italianamente non possiamo rispondere speriamo che la circostanza non si verifichi e fidare nella comprensione delle parti. Non vorremmo che qualora scattasse il secondo round tra Tsahal ed Hezbollah la via di uscita fosse il “tutti nei bunker” (delle nostre basi), in attesa che la bufera passi e nella speranza che gli aerei israeliani non sbaglino mira, o, peggio, il “tutti a casa”. Quest’ultima ipotesi, oltre a evocare un pezzo di memoria storica italiana, sarebbe anche logisticamente impegnativa. Gli unici accessi al Libano sono il porto e l’aeroporto di Beirut e da qui al sud esiste solo la litoranea. Per far defluire i nostri soldati sarebbe necessaria una complessa operazione anfibia da effettuare sulle spiagge di Tiro (a meno che Israele non ci apra il confine…) con enormi difficoltà. Ecco, la logistica, forse più degli stessi aspetti operativi impigliati nelle ristrette maglie della 1701, è il grande problema di UNIFIL. Le strade, eccettuo la costal road, sono quelle che sono e rendono problematico gli spostamenti di grandi convogli. Il contingente italiano è inoltre dislocato in sei basi e ciò rende ne rende l’approvvigionamento e il supporto alquanto complessi. Poi le basi vanno difese e questo significa altro personale. Ecco perché adesso, dopo l’euforia iniziale (quando si pretendeva che UNIFIL mantenesse una presenza sul terreno quanto più distribuita possibile), è allo studio un piano per accorpare le basi con l’obiettivo di razionalizzare il nostro dispositivo guadagnando personale da destinare, magari, a sostegno delle truppe che, in silenzio, combattono in Afghanistan a Farah ed Herat. Del resto, per i compiti di UNIFIL 1.800/2.000 soldati sarebbero più che sufficienti, considerando che gli altri contingenti più significativi, quello spagnolo e quello francese, superano di poco le 1.000 unità. Il nostro potere di deterrenza comunque non ne risentirebbe visto che la dotazione di mezzi (che comprende anche un blindo Centauro con cannone da 105 mm, veicoli da combattimento Dardo e mortai pesanti da 120 mm) è adeguata allo scenario e in grado di fronteggiare una potenziale situazione di crisi.

Pertanto, ridurre il contingente sì, ritirarsi no. Il ritiro lascerebbe un vuoto strategico significativo che danneggerebbe la popolazione libanese, in gran parte desiderosa di una vita tranquilla ed ormai anti-israeliana solo per abitudine; indebolirebbe il governo Siniora, fino a prova contraria amico dell’Occidente, e allarmerebbe Israele, che sui propri confini preferisce certo avere il Savoia Cavalleria piuttosto che le trincee di Hezbollah.