Uno, cento, mille Annozero? No, grazie

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Uno, cento, mille Annozero? No, grazie

16 Ottobre 2009

Col mestiere che fa (a dir poco, impegnativo) Piero Ostellino non ha molto tempo per frequentare le aule del Conservatorio ma la musica liberale la suona egualmente a orecchio e l’orecchio è perfetto. Non c’è tema che tocchi, riguardi la politica, l’economia, i costumi, che non ci riporti al cuore del liberalismo e dei valori della società aperta. La recente ‘piazzata rossa’ sulla libertà di stampa non poteva non ispirargli un “dubbio” e attivare la sua impareggiabile verve umoristica. E il commento è giunto puntuale con l’articolo Il corteo solitario e le notizie che servono, pubblicato sul ‘Corriere della Sera’. Riprenderlo ‘a bocce ferme’ quando il ricordo della manifestazione romana si sta dileguando potrebbe essere opportuno. "Che cos’è la libertà di informazione” si è chiesto Ostellino. "Come ogni libertà liberale, è ‘non impedimento’ (nel caso, a informare e a porre domande). Anche sulle ‘distrazioni’ di Berlusconi. Allora, per dirla con Mao, che sboccino dieci, cento, mille "Anno zero" di ogni colore. La libertà di informazione è (anche) diritto alla faziosità. La più ampia libertà di ciascun medium di comportarsi come crede sarebbe un servizio alla democrazia invece di un servizio ai poteri costituiti – politico, economico, sindacale, giudiziario – cui gli organi di informazione fanno troppo spesso da megafono”. Il discorso è, come sempre ineccepibile, ma questa volta è forse opportuna qualche precisazione.  "Malo periculosam libertatem” dicevano gli antichi e certo, sul piano dei diritti civili e politici, anche la ‘faziosità’ va rispettata e garantita, anche perché il ‘fazioso’ non sta sullo stesso piano del falsario: un ‘ipotesi scientifica, qualora assolutamente priva di fondamenta, è falsa per tutti, il giudizio su un governo può essere corretto, per gli uni, ‘fazioso’ per gli altri. Nel campo dell’opinabile, per citare ancora gli antichi,”tot capita, tot sententiae”.

Eppure un conto sono i diritti di libertà che vanno assicurati a tutti incondizionatamente, un conto ben diverso è il giudizio sulla ‘qualità della vita intellettuale e morale’ ovvero sul grado di civiltà di un paese, i cui organi di informazione siano, in gran parte, caratterizzati da uno stile aggressivo e scandalistico. E qui va detto, a chiare lettere, che dei “dieci, cento, mille ‘Anno zero’” un cittadino-lettore onesto dovrebbe solo vergognarsi se dotato di un minimo senso di dignità (anche se poi, come Voltaire, dovrebbe essere disposto a battersi perché le ‘voci della fogna’ moralistica non vengano messe a tacere).

Forse uno dei segni più inquietanti del difficile momento che stiamo attraversando è che si sta perdendo, anche nei migliori, il senso di un giornalismo indipendente, imparziale, competente. La generazione dei Vittorio Gorresio, degli Alberto Ronchey, degli Enzo Bettiza, se non è ancora del tutto scomparsa, è in via di esaurimento e quanti intendono seriamente osservare lo spettacolo della politica dalla tribuna della stampa e non dagli spalti delle tifoserie, vengono ironicamente definiti ‘cerchiobottisti’. Inoltre spesso capita di veder confuse indipendenza e competenza. Senza dubbio, sono entrambe qualità altamente positive per chi ha scelto la difficile professione del giornalista ma si tratta di cose diverse. E’ indipendente, ad esempio, chi ritiene ragionevoli misure del centro-destra come il lodo Alfano e lo scudo fiscale ma non altrettanto le dure prese di posizione del ministro Sacconi in fatto di bioetica. (Che poi tali valutazioni siano condivisibili o meno è irrilevante). E’ competente, invece, chi, distinguendo rigorosamente i “giudizi di fatto” dai “giudizi di valore”, come prescriveva il filosofo più caro a Ostellino – e allo scrivente – David Hume, ritiene che compito dell’informazione non sia quello di commentare le azioni del governo e/o le strategie delle opposizioni ma di riferire puntualmente su entrambe, di dire ‘come stanno le cose’ e con la maggiore imparzialità di cui sono capaci gli esseri umani, ahimé sempre fallibili.

Con tante mezze verità si può costruire una menzogna, avvertiva a ragione il vecchio Indro Montanelli – che, però, aveva torto nel ritenere il contrario, e cioè che con tante mezze bugie si potesse dire la verità. Vale per il giornalista quel che vale per lo storico. Se trattando il Risorgimento si ricordano solo l’eccidio di Bronte o la ferita di Aspromonte, il quadro che ne viene fuori risulta del tutto falsato; se denunciando il fenomeno del conflitto d’interesse, che indubbiamente pesa come un macigno sul Cavaliere, non se ne registrano i più macroscopici casi e il loro carattere diffuso a destra e a sinistra, si fa del giornalismo dimezzato e ideologico.

“Se si vuole comprendere la politica e la società in cui viviamo “ insegnano a scuola e nelle aule universitarie i maitres-à-penser dei Travaglio e dei Santoro,”bisogna mettersi dal punto di vista degli oppressi, delle vittime del sistema”. E’ la liquidazione di ogni pretesa di porsi “super partes” avanzata dal giornalista, dal sociologo, dallo storico. In quest’ottica, dar voce alla protesta sociale significa rivelare cosa si nasconde dietro le quinte del conflitto politico, di classe, di partiti etc., sicché tutto ciò che smaschera il potere, descrivendone il grado di abiezione, diventa ‘servizio pubblico’. Dovremmo auspicare un ‘gioco al massacro’ in cui alle escort di Berlusconi si contrapponessero le sospette curiosità erotiche di Sircana, in un continuo crescendo di malefatte e di comportamenti indecenti da una parte e dall’altra?

 A me piacerebbe se i ‘giornalisti impegnati’ avversi al centro-destra avessero lo stile che spesso mostra Antonio Polito (e che un tempo caratterizzava i commenti di Mario Pirani, quando ad es. esprimeva le sue riserve sul film ‘Il divo Giulio’) e se quelli anti-sinistra avessero lo stile, non sempre mostrato, di Maurizio Belpietro. Ma ancor più mi piacerebbe se i giornalisti si tenessero lontani dalle gradinate partitiche e si concedessero la libertà di criticare tutto e tutti come fanno Giampiero Mughini, Giampaolo Pansa o lo stesso Ostellino. E, inoltre, vorrei poter leggere sempre, sui grandi quotidiani, le pacate analisi sociopolitiche di ‘political scientists’ fuori dal coro come Angelo Panebianco e Luca Ricolfi.

In conclusione, poiché la decadenza del quarto potere, in Italia, è un fatto, teniamoci pure le “due campane”: sono sempre meglio del silenzio imposto dalla dittatura politica e dal conformismo al servizio dei ‘poteri forti’. Non nascondiamoci, però, che il loro rumore è assordante e rischia di fare dell’Italia un paese da sesto mondo.