Usa 2008: la partita è ancora tutta da giocare

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Usa 2008: la partita è ancora tutta da giocare

11 Aprile 2008

L’American Enterprise Institute di Washington prosegue con il suo
esame del voto negli Stati Uniti. Recentemente una commissione di esperti,
giornalisti ed analisti politici ha commentato la corrente situazione delle primarie americane, confrontandosi su
temi come il conflitto in Iraq e l’economia, approfondendo la corsa verso le
presidenziali e delineando un possibile scenario per le elezioni congressuali.

La
studiosa Laura Drinkwine ha aperto i
lavori con una constatazione interessante: soltanto qualche mese fa si
supponeva che le primarie presidenziali Democratiche si sarebbero concluse con
l’affermarsi di un candidato in tempi relativamente brevi, mentre i
Repubblicani si sarebbero contesi il titolo fino alla convention nazionale estiva. Si pensava inoltre che la guerra in
Iraq -o quantomeno la politica estera- si sarebbe attestata come il tema
dominante delle campagne elettorali di entrambe i partiti. Tuttavia oggi
assistiamo ad una curiosa inversione di tendenza: McCain si è già assicurato la
nomination del Grand Old Party,
mentre Barack Obama fatica a qualificarsi come standard bearer del Partito Democratico, avversato tenacemente -ed
abilmente, potremmo aggiungere- da Hillary Clinton; oltre a ciò, le riflessioni
riguardanti il panorama politico in Iraq sono considerate sempre più marginali,
inesorabilmente scivolate nell’ombra rispetto all’interesse crescente dei
cittadini verso la situazione economica nazionale.

Karlyn Bowman, scienziata politica ed
editorialista per l’AEI, prosegue rilevando alcuni punti di forza ed%0D
eventuali debolezze dei candidati in corsa verso le presidenziali, notando
comunque che è spesso la prima impressione a fare la differenza. Questo risulta
decisamente problematico per Hillary Clinton, che solo il 44% degli americani
reputa “onesta e meritevole di fiducia”, mentre Obama e McCain hanno ottenuto
rispettivamente il 63 e 67 per cento nei sondaggi. Inoltre, Clinton potrà certo
vantare una maggior esperienza politica nei confronti del suo rivale diretto,
ma Obama ha ottenuto un più alto numero di preferenze da parte dei cittadini
quando è stato loro chiesto “chi sareste più orgogliosi di avere come
Presidente”. Intanto, McCain continua ad affermarsi nella percezione comune
come il candidato più abile nel gestire i vari temi di sicurezza nazionale,
incluso lo scenario iracheno.

Riguardo al
tema che più preoccupa gli americani oggi, Norman
J. Ornstein
-scienziato politico ed esperto di politiche pubbliche- rimarca
come il pessimismo nei confronti della situazione economica sta toccando i
massimi storici, giungendo a livelli manifestatisi negli Stati Uniti soltanto negli anni 1979-80. Un recente sondaggio condotto da
Gallup/USA
Today ha riportato come l’86 per cento degli intervistati reputi Obama o
Clinton maggiormente in grado di amministrare l’economia americana rispetto a
McCain. Per questo, puntualizza Ornstein, è opportuno richiamare il candidato
Repubblicano ad una maggiore cautela nei rapporti con la presente
Amministrazione, percepita come la causa primaria della crisi che ha investito
gli USA oggi: il
76 per cento della popolazione difatti ritiene che il prossimo Presidente degli
Stati Uniti dovrà adottare un atteggiamento differente da quello di George W.
Bush nei riguardi dell’economia.

D’altro
canto, anche le difficoltà che Barack Obama si trova ad affrontare sembrano
assumere proporzioni considerevoli, specialmente in relazione ai sentimenti di
patriottismo del proprio elettorato. Le critiche sono piovute infatti su Obama
dopo che il suo pastore, il Rev. Jeremiah Wright, ha espresso in un suo recente
sermone sentimenti ritenuti dalla stampa “antiamericani”. Come ha sottolineato
anche Charles Murray, W.H. Brady Scholar presso l’AEI dal 2003, la risposta di
Barack Obama alle polemiche è stata convincente e decisamente brillante;
tuttavia, l’accusa di antiamericanismo è uno spettro dal quale il candidato
Democratico dovrà con tutta probabilità continuare a tutelarsi, come hanno
dimostrato anche i velenosi commenti che hanno accompagnato la sua decisione di
non indossare la spilla con la bandiera americana sul bavero della giacca
(notata con rigorosa puntualità dai media statunitensi); oppure il forse poco
appropriato commento della sua consorte in occasione di un discorso pubblico,
dove la signora Obama ha dichiarato “per la prima volta di sentirsi orgogliosa
di essere americana”. Al di là di qualsiasi giudizio di merito, prosegue Michael Barone (analista politico e giornalista
per U.S. News & World Report), le accuse di antiamericanismo rivolte a
Barack Obama potrebbero costargli la simpatia e dunque il voto di parecchi
elettori Democratici, specialmente in quanto tali imputazioni minano le basi
del suo appello all’unità dell’America, facendo apparire il motto di Obama “we
can” come un mero e vacuo slogan elettorale.

Nonostante
la copertura negativa a lui stata riservata da una sezione della stampa
nazionale, ed i recenti successi di Hillary Clinton nelle primarie di Texas e
Ohio, Norman J. Ornstein -scienziato politico ed esperto
di politiche pubbliche- ritiene che Obama sia ancora il favorito alla nomination in campo Democratico e che
sarebbe impossibile per Clinton recuperare il divario tra i propri delegati e
quelli conquistati dall’avversario. Ciò
nonostante, John C. Fortier -scienziato
politico ed editorialista- sottolinea come il costante flusso di superdelegati
che sembrava in deciso spostamento verso Obama, specialmente dopo le sue undici
vittorie successive al Super Tuesday, sembra essersi ridimensionato. Ora a
Hillary non resta altra scelta che vincere con un margine consistente in Pennsylvania per
poter restare in gara nel mese di giugno. La decisione di non ripetere il voto
in Michigan e Florida (dove l’organizzazione  nazionale del Partito Democratico ha punito
le proprie sezioni Statali per aver tenuto le primarie prima del 5 febbraio,
data stabilita ufficialmente per l’inizio delle primarie stesse) è stata un duro
colpo per la campagna di Clinton: il numero di candidati che Hillary avrebbe
potuto assicurarsi in caso di un risultato positivo in Michigan e Florida avrebbe
potuto infatti rivelarsi decisivo per il tanto agognato recupero nei confronti
di Obama.

In
ultimo, puntualizza Michael Barone, la
sfida tra i due candidati Democratici verrà decisa dai superdelegates -quei membri della Commissione Nazionale Democratica
che vengono eletti secondo gli stessi parametri di Senatori e Governatori, che
non sono tenuti ad indicare la propria preferenza in relazione alla propria
candidatura e non sono in competizione internamente al partito per la propria
elezione. Se Clinton riuscirà a creare un consenso in dirittura d’arrivo alla convention, mobilitando le coscienze
attraverso un’attenta operazione mediatica che conquisti il cuore -e il
portafoglio- degli americani, è possibile che i superdelegati siano
maggiormente disposti a sostenere la sua candidatura piuttosto che quella di
Obama.

Barone
ha affermato dunque come quest’anno i superdelegates
decideranno tra il primo candidato afroamericano e la prima donna candidati
alla Presidenza degli Stati Uniti: anche per questo, Stati tradizionalmente
percepiti come “rossi” o “blu” potrebbero cambiare drasticamente orientamento
politico in seguito alla scelta del candidato ufficiale del Partito Democratico,
scegliendo per quale partito votare anche in base a considerazioni di genere o
di colore. Su questo punto, il notissimo analista politico ha richiamato
l’attenzione degli studiosi alla recente conferenza sull’analisi dei dati
elettorali in relazione a quelli demografici, svoltasi il 29 febbraio scorso
con il patrocinio dell’American Enterprise Institute e della Brookings
Institution. Seppur il grande pubblico voglia sapere “quale Stato sarà la
prossima Florida”, ovvero a quale realtà sia opportuno guardare per dedurre dal
voto elettorale l’orientamento governativo prevalente del paese, in realtà sono
molti gli Stati che si riveleranno importanti indicatori del clima politico statunitense.

Le
considerazioni relative ai mutamenti di tendenza negli Stati “rossi” e “blu” potranno
infine avere un impatto decisivo sulle elezioni congressuali, rimarca John Fortier. Il numero dei seggi
disponibili favorisce nettamente i Democratici alla Camera dei Rappresentanti,
mentre si prevede che vi sarà un sostanziale stallo nel numero delle presenze
femminili sia alla Camera che al Senato, nonostante le tenaci manovre bipartisan volte a scalzare dal loro
ruolo le Senatrici Susan Collins del Partito Repubblicano e Mary Landrieu del Partito Democratico.

Nel
complesso, la partita è ancora tutta da giocare.