Usa e Iraq vicini a un’intesa per il ritiro delle truppe
26 Agosto 2008
“Alla fine del 2011 non ci saranno più truppe straniere sul suolo iracheno”, con queste parole il premier Nuri al-Maliki, parlando ieri a una conferenza di leader tribali sciiti, ha annunciato i termini di un accordo con gli Stati Uniti sulla presenza delle truppe della coalizione in Iraq (il cui mandato scade il 31 dicembre di quest’anno). Lo stesso al-Maliki, tuttavia, ha poi affermato che ci sono ancora diversi punti da definire, in particolare in merito all’immunità delle forze Usa, ai loro movimenti in Iraq ed alla necessità di un consenso esplicito delle autorità irachene alle loro operazioni militari, come sottolineato anche in un successivo comunicato diffuso dal suo ufficio a Baghdad.
Ma poco dopo è arrivata da Washington una secca smentita. Prima il portavoce del dipartimento di Stato, Robert Wood, poi il portavoce della Casa Bianca, Tony Fratto, hanno ribadito che l’accordo in realtà è soltanto una “bozza” non ancora finalizzata, e che dovrà passare attraverso una serie di “revisioni” prima che si possa parlare di “intesa”. Lo stesso segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, aveva dichiarato la scorsa settimana, durante la sua visita a Baghdad, che “i ruoli, le missioni e le dimensioni delle Forze Armate statunitensi, sono basate sulle condizioni sul campo, e sulle reali esigenze operative”.
Al di là degli accordi effettivi, ciò che più colpisce è che finalmente Washington e Baghdad possono oggi discutere del ritiro delle truppe americane. E questo perché il surge sta funzionando, le Forze Armate e la polizia irachene stanno dimostrando di essere cresciute e di poter aspirare a diventare autonome, la guerra civile è stata scongiurata ed i nemici dell’Iraq sono stati isolati. Insomma non si cerca un accordo a fronte di una sconfitta, ma si cerca un accordo a fronte di una vittoria. Una situazione assolutamente insperata quando, 18 mesi fa, il generale Petraeus prese il comando delle operazioni. Allora l’Iraq era nel caos, ed il “surge” era l’ultima chance per riportare la situazione sotto controllo.
Mentre il presidente Bush decideva di inviare 30.000 truppe aggiuntive, i democratici scommettevano sul suo fallimento, la speaker della Camera, Nancy Pelosi, ed il leader della maggioranza al Senato, Harry Reid, firmavano una lettera congiunta sostenendo che il surge era inutile; il senatore Joe Biden, scelto nei giorni scorsi da Obama come suo vice, presentava una risoluzione contraria e fortemente critica nei confronti dell’amministrazione e definiva “dead flat wrong” le testimonianze di Petraeus e dell’ambasciatore Ryan Crocker di fronte al Congresso. Lo scorso aprile, ancora Reid dichiarava: “la guerra è ormai persa”.
Ma la guerra non è stata persa, come raccontano da qualche mese tutti i giornalisti che ritornano dall’Iraq, parlando di un paese diverso, cambiato. L’ultimo in ordine di tempo è Bing West, che la settimana scorsa sul Wall Street Journal ha raccontato del suo ultimo viaggio: “La guerra alla quale ho assistito per più di cinque anni è finita. Per la prima volta in 15 viaggi non ho udito un solo sparo né un’esplosione per le strade. A Mosul ho parlato con un commerciante nello stesso angolo di strada dove lo scorso gennaio un Humvee esplose proprio di fronte a me. A Baghdad, nel distretto di Ghazilia, dove lo scorso gennaio i cecchini controllavano la strada, ho visto giocare a calcio. A Bassora, ho visto il comandante inglese cenare tranquillamente in un locale del centro di una città in piena attività”.
Anche le statistiche, con i loro freddi numeri, confermano le testimonianze dei giornalisti, e dicono che a luglio vi è stato il minor numero di caduti americani in Iraq dall’inizio della guerra nel 2003. Al Qaeda è ormai confinata al nord, vicino a Mosul, ed ha perso completamente il controllo del territorio, stritolata dalla “Anaconda Strategy”del generale Petraus, mentre al sud le Forze Armate irachene hanno liberato Bassora dai miliziani sciiti. Così, quando a fine mese Petraeus lascerà l’attuale incarico nelle mani del suo vice, il generale Odierno, e prenderà la guida dell’US Central Command (il comando responsabile delle operazioni militari statunitensi in Medio Oriente, Africa ed Asia, che include quindi, oltre all’Iraq, anche l’Iran, il Pakistan e l’Afghanistan), potrà farlo consapevole di avere raggiunto importanti successi e di aver dato all’America una prospettiva di successo.
Spetterà così a Odierno rafforzare i progressi nel teatro iracheno che, per quanto importanti e significativi, sono ancora fragili. Le Forze Armate e la polizia irachene non sono ancora pronte per prendere il controllo completo del territorio e mantenere la stabilità e la sicurezza; i nemici, inoltre, non sono ancora definitivamente sconfitti. Occorrerà quindi tenere ben presente la situazione sul campo, che può variare sensibilmente nelle diverse aree del paese, perché il rischio è che il vuoto causato da un ritiro affrettato dei militari americani venga riempito non dalla polizia irachena ma dai terroristi appoggiati dall’Iran, vanificando gli sforzi fatti finora. Insomma, c’è ancora molto lavoro da fare, prima di poter dire una volta per tutte: missione compiuta.