Usa e Turchia litigano sull’Armenia e il Kurdistan trema
12 Ottobre 2007
Il più recente e appariscente motivo di scontro tra i due
paesi è l’iniziativa legislativa avviata alla Camera dei rappresentanti
americana, per riconoscere come “genocidio” le persecuzioni degli armeni da
parte dell’esercito turco compiute durante la prima guerra mondiale. Si tratta
di una pagina nera della storia della Turchia, poco discussa e metabolizzata da
parte dell’opinione pubblica e soprattutto dall’establishment politico e
militare di Ankara. Tanto che il presidente del parlamento turco, Koksal
Toptan, ha scritto alla sua omologa Nancy Pelosi chiedendo di non approvare il bill
in questione. Toptan teme, secondo un articolo dell’International Herald
Tribune dell’8 ottobre, che “gli Armeni
prenderebbero tale atto come una conferma della loro posizione sulla
disputa storica, e a quel punto sarebbe difficile controllare le dinamiche
innescate dalla reazione turca”. L’Armenia ha rifiutato la proposta della
Turchia di istituire una commissione di storici per esaminare gli archivi, e
afferma che 1,5 milioni di armeni sono stati sistematicamente uccisi dai turchi
dal 1915 al 1923. Da parte sua la classe politica turca, dai post islamisti di
Erdogan ai laici di destra e di sinistra, continua ad accettare che in base
all’articolo 301 del Codice penale siano condannati per aver insultato
l’identità della Turchia giornalisti e scrittori che in qualche modo affrontano
il tema del genocidio armeno.
Incurante di tale delicata situazione, la Commissione esteri
della Camera statunitense ha approvato pochi giorni fa il bill, che ha
buone possibilità di superare anche l’esame dell’aula con l’appoggio dei
democratici e di una parte dei repubblicani, sulla spinta anche della forte
lobby armena. Inaspettatamente, ieri Ankara ha deciso di rispondere con un
gesto eclatante, richiamando per alcuni giorni in patria il proprio
ambasciatore negli Stati Uniti. Già nelle settimane scorse il primo ministro
turco Erdogan aveva messo in guardia Bush che il bill mette a
repentaglio la partnership strategica tra i due paesi, ed il presidente
americano aveva subito invitato la Camera a ritirare il progetto di legge.
Inimicarsi Ankara non è infatti per Washington un rischio da correre a cuor
leggero. La Turchia ha rotto i rapporti militari con la Francia dopo un’analoga
legge francese sul genocidio armeno, e una rappresaglia simile con gli Stati
Uniti avrebbe dure ripercussioni sulle operazioni in Afghanistan e Iraq, che
dipendono fortemente dal supporto logistico turco ed in particolare
dall’utilizzo della base aerea di Incirlik.
Proprio l’Iraq costituisce la grande nota dolente del
rapporto turco-americano. Da mesi la Turchia lamenta il fatto che il Kurdistan
iracheno ospiti basi logistiche dei guerriglieri curdi del PKK, che compiono
poi i loro attacchi in territorio turco. L’esercito di Ankara combatte da oltre
vent’anni una guerra senza quartiere contro le organizzazioni indipendentiste
curde, basate nel sud est del paese e responsabili di una lunga scia di
attentati costata alla Turchia 30.000 morti. Dopo i segnali di riconciliazione
riscontrati tra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei duemila, dovuti ad una
sostanziale vittoria sul campo dell’esercito turco accompagnata da caute
aperture politiche del governo centrale, l’autonomia di cui gode il Kurdistan
iracheno dopo la cacciata di Saddam Hussein ha ridato nuova linfa alla
guerriglia curda in Turchia. Sono nuovamente aumentati gli attentati, le
attività clandestine ed il numero dei morti. Ad esempio domenica 30 settembre
una bomba esplosa in un villaggio ad appena 25 km dal confine iracheno ha
ucciso 13 soldati turchi, sollevando un profondo risentimento in tutto il
paese.
Il governo Erdogan, con il pieno appoggio dei militari, dei
laici e dei nazionalisti, da circa un anno chiede con forza agli Stati Uniti di
porre fine a tale situazione nel Kurdistan iracheno. Ma Washington non ha le
capacità né a livello militare né a livello di intelligence per intervenire
nella regione, e soprattutto non vuole rovinare i rapporti con i curdi
dell’Iraq: essi sono infatti l’unica etnia su cui gli americani possono davvero
contare, e che ha realizzato nella propria area quattro anni di autogoverno con
livelli di violenza e di disordini enormemente inferiori al resto del paese.
Di fronte alla posizione degli Stati Uniti, che non sono
andati oltre generici appelli ai leader curdi perché smettano di sostenere la
guerriglia in Turchia, da mesi l’esercito turco prepara i piani di invasione
del Kurdistan iracheno. E’ bene ricordare che l’esercito turco è tuttora per
grandezza il secondo esercito della Nato, superiore anche a quello francese ed
inglese, che per decenni ha tenuto impegnate 80 divisioni sovietiche ai suoi
confini, e che non ha mai mostrato debolezza né contro i guerriglieri curdi né
verso le istituzioni civili turche. Le forze armate turche godono inoltre di un
forte sostengo popolare in un paese sempre più nazionalista. Il 2 ottobre i
vertici politici e militari turchi hanno unanimemente autorizzato, riporta
l’Herald Tribune del giorno successivo, “l’adozione di ogni misura, incluse le
operazioni oltre confine se necessarie, per porre fine all’esistenza di
organizzazioni terroristiche nei paesi vicini”. Un mandato ampio e forte, che
potrebbe venire ratificato nei prossimi giorni anche da una mozione
parlamentare che gode già sulla carta di un sostegno quasi unanime. L’esercito
turco ha schierato ai confini con l’Iraq qualcosa come 200.000 uomini, quasi il
doppio delle forze americane presenti nel paese, che non aspettano altro che il
permesso dei loro superiori per attraversare la frontiera e regolare i conti
con i guerriglieri curdi. Usa e Ue hanno chiesto ad Erdogan di non imboccare
tale strada, ma il 12 ottobre il primo ministro ha risposto di essere pronto ad
affrontare tutti i costi di tale operazione, e che rispetta l’integrità
politica e territoriale dell’Iraq ma se Baghdad continua a non fare nulla
contro i terroristi Ankara dovrà agire.
Se questo è il quadro, stupisce l’abilità della Camera dei
rappresentanti statunitense di muoversi come un elefante in un negozio di
cristalli. In teoria, il sostegno internazionale al riconoscimento del
genocidio armeno dovrebbe contribuire ad un processo di maturazione della
coscienza nazionale della Turchia, e alla riconciliazione dei turchi con gli
armeni e con le altre etnie come i curdi con i quali vi sono analoghi forti
contrasti. Il riconoscimento di un genocidio avvenuto 90 fa durante una guerra
mondiale non è cioè un fine politico in sé, ma dovrebbe essere un mezzo per
raggiungere oggi gli obiettivi politici di pace e stabilità nel Medio Oriente.
L’azione della Camera statunitense invece ha ottenuto il risultato esattamente
opposto: esacerbare i contrasti tra Turchia e Armenia, infiammare ancor di più
il nazionalismo turco, accelerare la corsa verso una guerra tra Ankara e il
Kurdistan iracheno. O tempora, o mores.