Usa, ecco in azione i buttafuori intellettuali che licenziano chi non la pensa come loro
12 Giugno 2020
di Vito de Luca
Ora un termoscanner non servirebbe più alla popolazione costantemente monitorata all’ingresso dei musei, degli aeroporti, delle stazioni, degli ospedali, e in tutti i luoghi di aggregazione, soprattutto indoor. Forse, la temperatura andrebbe invece misurata a certa stampa a stelle e strisce (ma non solo), quella che Trump chiama “lamestream media”, il discount dell’informazione, che davvero non sembra essere in salute, visto che negli ultimi giorni ha fatto fuori capi servizio e redattori non allineati con il mainstream dominante dell’intellettualismo radical chic, del “left radicalism”, per citare ancora il presidente Usa, Trump. Insomma, dei veri e propri piccoli e grandi putsch, da parte di alcuni manipoli insediati in diverse redazioni giornalistiche, hanno fatto sì che colleghi che pensavano ancora di vivere in un mondo in cui l’informazione corretta consistesse nel separare le opinioni dai fatti, fossero esautorati. Una purga, ora diventata pietra miliare nel giornalismo Usa, tanto per far capire chi davvero comanda. È successo al New York Times, al Philadelphia Inquirer, a Bon Appétit e a Refinery29. In quello che, a torto o a ragione – tempio della cultura liberal – è considerato il più prestigioso giornale del mondo, il Nyt, è accaduto che il direttore della pagina delle opinioni, James Bennet, si sia dovuto dimettere per via di una presa di posizione da parte di quelli che possiamo definire dei buttafuori intellettuali. La colpa di Bennet, si fa per dire, quella di aver dato il via libera alla pubblicazione di un articolo del senatore repubblicano Tom Cotton, il quale asseriva la necessità di un intervento dell’esercito per fronteggiare le proteste seguite alla morte di George Floyd, l’uomo ammazzato dalla polizia di Minneapolis nelle scorse settimane durante un controllo. Ma la parresia sembra non essere di casa, nel quotidiano newyorkese, visto che l’op-ed di Cotton ha fatto uscire dalle tenebre – a dire il vero non proprio nascoste – una fronda di detentori del giusto e del corretto incontrovertibile: la loro opinione, apodittica, che non ammette replica.
Un vaso di Pandora, da cui è uscito di tutto, compresa la lotta tra i buoni e i cattivi, dove, neanche a dirlo, alla prima categoria apparterrebbero i portatori dell’imperativo categorico kantiano, di una sorta di “obbligo morale”, secondo il quale si dovrebbero auto-ergersi a diga contro la “deriva” della presidenza Trump, soprattutto sulle questioni razziali. Per i “cattivi”, invece, l’onta di voler dimostrare imparzialità, secondo la quale alla parresia andrebbe aggiunta, addirittura, quella che è considerata una mostruosità per i custodi della tendenza culturale dominante: l’isegoria, la possibilità di prendere la parola in un contesto pubblico. L’articolo di Cotton, per aver chiesto l’intervento dell’esercito contro le devastazioni delinquenziali che hanno devastata parte dell’America, avrebbe messo «a rischio lo staff nero del New York Times», hanno ripetuto i colleghi di redazione di Bennett, in centinaia di tweet tutti uguali. Il pensiero unico nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. L’altro caso è stato quello del direttore di lunga data del Philadelphia Inquirer, Stan Wischnowski, che era riuscito a far sopravvivere la pubblicazione in tempi difficili, il quale è stato disarcionato per un titolo, “Buildings Matter, Too”. Era in testa a un pezzo del critico di architettura Inga Saffron, che, da par suo, temeva che gli edifici danneggiati dalla violenza potessero «lasciare un buco nel cuore di Filadelfia». Niente da fare, i sacerdoti del vero, giusto e unico hanno deciso che il titolo rappresentasse un’offesa al Black Lives Matter, il movimento-attivista impegnato nella lotta al razzismo. Non sono state sufficienti scuse o modifiche al titolo e Wischnowski non è durato una settimana. Idem, più o meno, è accaduto al direttore di Bon Appétit, Adam Rapaport, catapultato fuori della redazione per una vecchia foto in brownface (la versione portoricana del blackface), e alla direttrice di Refinery29, Christine Barberich, perché accusata di aver discriminato le dipendenti nere. Tutti piccoli passi nella marcia delle politiche identitarie e della “cancel culture”, attraverso le istituzioni liberal, come lo sono i giornali, e i media in generale, ma che rappresentano un grande passo verso l’eliminazione del contradditorio, tanto per parafrasare uno che di spazi senza limiti se n’intende, Neil Armstrong. Ormai, ma la questione riguarda tutti gli ambienti culturali, non solo i giornali, è una ricerca spasmodica e dottrinaria dello “spazio sicuro”, della “messa in sicurezza”, in cui i dogmi delle politiche identitarie trovano la loro origine nelle università. Gli ideologi attivi, come li chiamerebbe Marx, di questa politica, dominano praticamente tutte le più importanti istituzioni culturali d’America: musei, filantropia, Hollywood, case editrici e persino talk show notturni, dove si ride a comando, e solo sul politicamente corretto. Ovviamente, la questione non è solo americana, ma mondiale. Occidentale, in particolare. Ma in gioco non vi è soltanto il pluralismo, di per sé cruciale. Vi è proprio il fondamento dell’Occidente, rinnegato da chi dovrebbe esserne l’alfiere e il paladino, il quale, in nome di una presunta “sicurezza”, anche del pensiero, sta minando il nucleo del concetto di esistenza, così come ad Ovest da più di due millenni a questa parte è stato per lo più inteso.
Anche, e soprattutto, nella vita cristiana, radice del nostro vivere, vi è una messa al bando della sbandierata sicurezza, in quanto per la vita cristiana, quella autentica, non c’è alcuna sicurezza, mentre la costante insicurezza è anche il tratto caratteristico di tutte le cose aventi un significato fondamentale della vita effettiva. L’insicuro non è casuale, direbbe Paolo (l’apostolo), bensì necessario, e questa necessità non è né logica, né naturale. Coloro che dicono “pace e sicurezza” si consacrano totalmente a ciò che la vita arreca loro, occupandosi di ogni compito della vita, quale che sia. Lo Stato è spirito e lo spirito è lotta, direbbe Giovanni Gentile, e ogni omologazione, ogni indifferenziazione, così come ci arriva da certo giornalismo uniformato, è la morte di questo spirito. Dunque, dello Stato.