Usa: sui vincitori delle primarie regna l’incertezza

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Usa: sui vincitori delle primarie regna l’incertezza

11 Gennaio 2008

I riflettori delle emittenti televisive di mezzo mondo si sono spenti a Concord ed il New Hampshire è ritornato alla sua placida – e un po’ noiosa – vita di provincia. Cessata l’orgia mediatica intorno alle primarie è il momento di una riflessione intorno al risultato e alle sue conseguenze. Dopo i caucuses dell’Iowa, a sentire i media, sembrava che i giochi fossero fatti, almeno in campo democratico. L’algida senatrice Rodham Clinton ( che – chissà perché – i giornalisti italiani chiamano solo Hillary, neanche fosse l’amica della porta accanto) era stata sonoramente sconfitta e pareva sul punto di ritirarsi, mentre la stella del giovane e affascinante senatore Obama brillava nel firmamento della politica americana. In campo repubblicano – come sempre quando si sceglie un candidato che deve sostituire un presidente del proprio stesso partito – il panorama appariva più confuso, con l’inaspettata vittoria di Huckabee. I mezzi di informazione italiani, che davano già per scontato il fatto che la Clinton sarebbe risultata vincitrice nella contesa del novembre 2008, neanche se il partito democratico concorresse da solo alle presidenziali, hanno fatto marcia indietro e hanno immediatamente sposato il change del senatore dell’Illinois.

Dopo i risultati del New Hampshire ecco la novità: la Clinton non è politicamente morta (nonostante i troppo facili sondaggi) e in campo repubblicano riemerge la figura dell’eterno secondo il senatore dell’Arizona John McCain. L’Herald Tribune, commentando gli eventi, apre il giornale del 10 gennaio con il titolo “Due ritorni rimodellano la competizione americana”. Sull’onda del risultato – ritenuto imprevisto in campo democratico – gli analisti si sono spesi per disegnare nuovi scenari che, forse, verranno ancora smentiti dopo le primarie del Michigan. Splendido nella sua “pelosa” imparzialità il nostro Furio Colombo che a Rai news 24, commentando i risultati di Concord ha affermato: “Fortunato il paese che può scegliere tra Obama e Clinton”.

Di fronte a questo florilegio di previsioni si potrebbero utilizzare le parole di Shakespeare: much ado about nothing. Innanzitutto la vittoria della Clinton non deve stupire. Il New Hampshire è uno stato della Nuova Inghilterra dove è ancora forte l’influenza dei Kennedy e – come noto – il vecchio Ted, patriarca della famiglia e senatore del Massachussetts da tempo immemorabile, è stato un grande elettore di Bill Clinton. La vittoria di Hillary Rodham era quindi più che probabile tanto che una eventuale sconfitta avrebbe rappresentato la fine politica della senatrice di New York. Anzi è possibile affermare che la sconfitta di stretta misura di Obama (3% di scarto) indichi che il cammino della Clinton potrà essere arduo anche negli stati considerati sicuri. Si dice che lei abbia recuperato il voto femminile. Forse è possibile affermare che è riuscita a fare propri i voti democratici tradizionali, grazie anche al sostegno della macchina del partito e di “satrapi” locali, come il già citato Kennedy. Al contrario il senatore Obama ha fatto propri i voti di chi – in ambiente democratico – era rimasto deluso dalla non esaltante gestione della maggioranza del Congresso. Parimenti, in campo repubblicano, la vittoria ha arriso a chi aveva già vinto le primarie in quello stato nel 2000, contro la “corrazzata” Bush jr. Sicuramente, almeno in campo democratico, saranno determinanti, per capire la tendenza dell’elettorato, più che le primarie in Michigan del 15 gennaio (dove è prevedibile un testa a testa tra i due candidati principali), l’esito del voto in South Carolina del 19 gennaio. Lì si capirà se il meticcio (nel senso italiano del termine) Obama saprà polarizzare su se stesso il voto afroamericano (oltre il 60% nel Palmitto State). Parimenti in campo repubblicano, dando per scontata la vittoria di Romney in Nevada (il candidato è mormone), sarà importante capire se a Columbus prevarrà McCain o Huckabee e, soprattutto, se in Florida il 29 gennaio o nel super Tuesday del 5 febbraio, dove 22 Stati designeranno i propri delegati alle Convention, Rudy Giuliani uscirà dalle nebbie che paiono circondare la sua candidatura.

Nell’impossibilità e nell’inutilità di poter fare delle previsioni attendibili è utile soffermarsi su alcuni precedenti storici, che costituiscono un continuum nella storia politica americana, paragonati alla situazione attuale. Due fattori non giovano né alla senatrice Rodham Clinton, né a Giuliani. Sulla prima aleggia un’aura di antipatia e di “falsità”. Di fronte a vasti settori dell’opinione pubblica ella appare – come scherzosamente la descrive l’HT- calcolatrice, fredda distante e priva di emozioni. Lo stesso modo nel quale reagì alle intemperanze sessuali del marito suonò come falso. Non è un caso che i guru dell’immagine l’abbiano invitata a mostrarsi “umana” versando, alla bisogna, qualche lacrimuccia. La stessa sicurezza con la quale pare descrivere il suo piano politico e il continuo richiamo all’esperienza maturata alla Casa Bianca negli otto anni di presidenza del marito (visto come aveva pilotato la fallita riforma della sanità pubblica, vi sono forti dubbi sulla validità di questa esperienza), potrebbe essere un’arma a doppio taglio. L’elettorato americano, più volte, non ha premiato la sicurezza, preferendo incerte figure con le quali potersi identificare. Chiaro l’esempio di Bush jr.

Nel 2000, quando era dato per sicuro vincente Al Gore, i faccia a faccia tra i due candidati, facevano apparire l’allora vicepresidente come uomo sicuro di sé, con un programma chiaro e definito. I risultati si conoscono. L’outsider contese la vittoria con un serrato testa a testa. Nel 2004 il candidato democratico, il senatore Kerry, si presentava forte della sua preparazione, delle sue buone conoscenze, sia nei “salotti buoni”, sia in ambito internazionale. Menava vanto di parlare diverse lingue e di avere una cultura cosmopolita. Al contrario G. W. Bush, che i nostri media davano irrimediabilmente per sconfitto, si presentava con la sua voce flebile e l’incedere di un timido cronico. Pareva l’uomo della strada americano che, trovandosi all’estero, si rifugia da McDonald’s, alla ricerca di un’atmosfera amica. I risultati sono noti. Contro ogni previsione Bush vinse con il più alto numero di voti popolari registrato in tutta la storia americana. L’immagine di Hillary Clinton è esattamente opposta e, unitamente al palese legame a molti poteri forti, potrebbe nuocere alla sua campagna elettorale.

Sull’altro fronte abbiamo Giuliani. Nelle pagine dell’Occidentale, Gisotti ha più volte ricordato la popolarità del “sindaco d’America”, ottenuta non solo con un’ottima gestione della Grande Mela, ma anche con il modo con il quale ha affrontato sia la disgrazia dell’11 settembre, sia la sua malattia. Però è necessario ricordare che mai nella storia americana l’ex sindaco di una grande città è entrato alla Casa Bianca. Egli, oltre che italiano, è – come origini e come crescita – l’esponente di una grande città. L’elettore americano medio, invece, ha sempre preferito personalità provenienti dalla provincia. L’eredità morale di Washington e Jefferson che lasciata la presidenza tornarono a seguire i lavori nei campi a Mount Vernon e Ponticello, così come il ricordo della vita agreste di Lincoln è ancora vivo. L’ultimo presidente cittadino “doc” fu Franklin Delano Roosevelt. A favorirlo nella vittoria elettorale del 1932 fu la disastrosa gestione repubblicana della crisi del ‘29. Lo stesso John Kennedy, che i media amano ricordare come un giovane colto elegante e cosmopolita era, almeno dai “bramini” nel New England, visto come il figlio di un parvenu arricchitosi in modi “sospetti”. D’altronde è noto che lo stesso matrimonio con l’elegante Jaqueline Bouvier era stato studiato a tavolino per dare un tocco di eleganza a una famiglia di immigrati irlandesi. Oltre a ciò, egli vinse lo scontro con Nixon per un’incollatura ed ebbe bisogno dei voti del “provinciale” e sudista Johnson per prevalere sul repubblicano. Gli altri presidenti, dal 1945 ad oggi, ostentano provenienze provinciali, quando non rurali (a cominciare dallo stesso Clinton). Molti di loro si sono presentati come self made man, a cominciare da Truman e finendo con Reagan.

Nella mitologia politica americana è sempre viva e valida l’immagine di “Mr. Smith goes to Washington” dove Capra dà risalto all’immagine del cittadino comune che entra nella stanza dei bottoni, con la volontà di fare piazza pulita dei politici “politicanti”. Questa retorica dell’anti-politica ha spesso condizionato le elezioni americane, soprattutto quando il vincitore è un repubblicano. Per quanto molti presidenti abbiano precedentemente rivestivo la prestigiosa carica di senatore (segnale di attaccamento ad una particolare territorio), non molti di essi sono stati politici di professione (Kennedy, Nixon, Ford, Carter e Clinton). Si prospetta, quindi, vita dura ai candidati che provengono da un environment sociologico urbano. Tutte queste sono solo chiacchiere in libertà. Le vere risposte sono nelle schede degli elettori americani.