Vade retro Italia: gli investitori scappano dal Sud
22 Febbraio 2016
Dopo Rockhopper e Petroceltic, anche la multinazionale anglo-olandese Shell lascia l’Italia, rinunciando a due miliardi di euro di investimenti. Ai manager di Shell sono bastate poche righe inviate al ministero dello Sviluppo economico per abbandonare i permessi di ricerca petrolifera tra Puglia, Calabria e Basilicata. Prima di spiegare il perché, vale la pena premettere che queste aziende straniere avevano in larghissima parte ottenuto le autorizzazioni necessarie a operare nel nostro Paese e che se ne vanno tutte dal Mezzogiorno, terra lontana dai radar del Governo.
Per capire il motivo della ritirata straniera bisogna fare caso all’avanzata dell’armata brancaleone piddina nelle Regioni del Sud, in testa la Puglia di Michele Emiliano, le quali Regioni, per calcolo politico e per non scontentare il rumoroso fronte interno del NO, sono riuscite a strappare il referendum del 17 aprile contro le trivellazioni. Referendum che si terrà al modico costo di 300 milioni di euro e con un quesito di sicuro appeal per gli italiani: andremo a votare sulla “durata delle concessioni già in esercizio”, tema particolarmente entusiasmante. Qualche Regione pur di spiegarlo ai cittadini ha già dovuto mettere mano al portafoglio con campagne informative ad hoc.
Ma il motivo per cui le aziende del settore se ne vanno non è il referendum e neppure il calo del prezzo internazionale del greggio. Il vero problema dell’Italia è “il rischio Paese”, come scrive il Sole 24 Ore raccontando il caso di Shell, “qualsiasi programma di investimento viene reso inaffidabile dal tira e molla della politica italiana, la cui visione non ha una prospettiva di decenni non a mesi e nemmeno a settimane”. La stessa condizione di inaffidabilità accertata dalla relazione sulla finanza pubblica della Commissione europea alla voce sostenibilità del debito. Identico “quadro ad alto contenuto di incertezza” che secondo il presidente della Corte dei Conti “permane” nel Belpaese, come ha detto Squitieri durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario. E’ questo che allontana gli investitori.
“L’efficiente funzionamento della macchina della giustizia, quale strumento principe del contrasto all’illegalità, costituisce un elemento decisivo per contribuire allo sviluppo e alla crescita del Paese”, ha spiegato Squitieri, “più volte mi sono detto convinto che le illegalità trovano nella complessità e nella moltiplicazione delle leggi spazi più fertili per fare presa, piuttosto che presidi e ostacoli a loro difesa”. Nel caso delle aziende citate, con tutti i permessi in regola, anche quelli ambientali, ma bloccate dai continui rovesciamenti normativi imposti dalla politica, dai conflitti di competenza tra Stato e Regioni, dai freni burocratici, che altro ci si può aspettare se non un freddo addio? Tanto più che a livello locale c’è chi brinda alla fine di questi investimenti come una vittoria di civiltà.
E allora qualcosa non torna nella retorica renziana della "cultura del sì", negli orpelli leopoldini sulla "politica del fare", #RenziFaCose come recita un azzeccato parody account su Twitter. Ergersi a paladino dello sviluppo, della crescita e della modernità contro il fronte della decrescita infelice è sempre stato un manifesto del renzismo, ma con Shell e le altre aziende il governo ha soltanto sprecato tempo e risorse. Il presidente del consiglio non può più cavarsela addossando la responsabilità su chi è venuto prima di lui o scaricare i fallimenti sui "gufi" appostati dietro ogni angolo. Governa ormai da tempo e stavolta la responsabilità è sua. Prima voleva rottamare l’Italia, poi sbloccarla, ma per adesso sembra stia solo contribuendo a ostacolare il mercato senza offrire regole certe a chi investe.