Vecchioni non è mai guarito dal morbo del giovanilismo (e Sanremo lo dimostra)
17 Febbraio 2011
Non vi è alcun dubbio circa la fede politica della maggior parte dei cantautori italiani. Nel panorama musicale nostrano non sono mai mancati perbenisti e strimpellatori di piazza che, con qualche idea raccolta in pochi versi accompagnati da melodie banali e popolari, sono stati adulati come mostri sacri, esenti da ogni critica.
Una figura, quella del cantautore impegnato, miticizzata come soltanto la sinistra sa fare. La scelta di cantare i propri ideali politici sembra porre questi artisti, tanto agli occhi del pubblico quanto a quelli della critica, un gradino sopra i loro colleghi. Quella di preferire un messaggio politico a uno d’amore è una scelta che non può in alcun modo decretare la superiorità di un artista. Non è la tematica in sé a fare la canzone, ma il valore dei suoi contenuti.
Sembrano invece essere di tutt’altro avviso al Festival di Sanremo, dove la canzone “Chiamami Ancora Amore” di Roberto Vecchioni è annoverata tra le favorite alla vittoria del concorso canoro. Il brano del “professore” si è fatto notare ancor prima dell’inizio del Festival per il contenuto palesemente politicizzato di alcuni versi, rivelati in anteprima dal Corriere della Sera; quelli che, con buona pace della struttura melodica del pezzo, potrebbero determinarne il piazzamento sul podio Sabato sera.
Tra i tanti riferimenti presenti nel testo, talvolta impliciti e talaltra più espliciti, il più diretto è quello che tesse le lodi degli studenti che lo scorso Dicembre manifestarono contro la riforma della scuola pubblica attuata dal ministro Gelmini: “e per tutti i ragazzi e le ragazze che difendono un libro, un libro vero, così belli a gridare nelle piazze perché stanno uccidendoci il pensiero”. Entrando nel merito, l’autore sembra muovere una critica nei confronti di un presunto pensiero unico predominante imposto dalla maggioranza di governo o, per dirla alla Nichi Vendola, dal fenomeno del berlusconismo.
E’ questa una cifra che nei testi dei cantautori di sinistra ricorre come un’antifona ormai da tempo immemore, benché consista in una contraddizione in termini. Infatti, una certa fazione della sinistra – che di totalitarismo ne sa qualcosa – dimentica che, se veramente vigesse un pensiero unico, il dissenso verrebbe represso. E invece li vediamo, come Emma, scendere in piazza al fianco delle donne che manifestano contro il premier, salire sul palco dell’Ariston come fosse il pulpito del Primo Maggio, come il suddetto Vecchioni; liberi e incensurati, checché se ne dica del “regime” berlusconiano.
Addio al capitalismo, al mercato, alla borghesia: bazzecole. Per la sinistra della canzone italiana la nuova sovrastruttura è il berlusconismo, che mette in ginocchio il paese e determina la società; altro che libero arbitrio dell’individuo: sono tutti ipnotizzati dal Cavaliere che costringe il popolo al consenso. E’ il determinismo berlusconiano da sconfiggere incitando i ragazzi a scendere in piazza a gridare come si faceva nel ‘68, piuttosto che discutere della riforma Gelmini con il testo alla mano, confrontandosi con le opinioni altrui. E’ il determinismo berlusconiano da sovvertire con l’egemonia culturale, con i “professori” della scuola pubblica che, con buona pace della loro etica professionale, prospettano ai ragazzi una visione dualista della società divisa in buoni e cattivi – a sinistra i primi e a destra i secondi – e la vanno a strimpellare al Festival dei fiori.
Ce lo dica Vecchioni qual è questo “libro, un libro vero” che è più opportuno brandire in piazza piuttosto che studiare in aula. Ancora una volta, ci diranno che siamo noi malfidati a fiutare l’ideologia laddove c’è solo un messaggio di libertà e di rinascita dopo la crisi che stiamo attraversando. Se, per citare ancora il brano, “questa maledetta notte dovrà ben finire”, auspichiamoci non sia l’alba della loro Repubblica.