Veltroni guida un partito che non c’è e Prodi non molla il governo
15 Ottobre 2007
La valanga, puntuale, si è
abbattuta sul voto delle primarie del Partito Democratico. E Walter Veltroni,
alla prova delle urne, ha stravinto senza accontentarsi di vincere,
raccogliendo percentuali da elezioni (quasi) bulgare. Con il 75 per cento dei
voti, il sindaco di Roma è andato in fuga e ha lasciato tutti gli altri, a
dividersi le briciole, concedendo a Rosy Bindi circa il 13 per cento e ad
Enrico Letta l’11 per cento dei consensi. Per gli outsiders – la “Generazione U” di Mario Adinolfi
e “Il coraggio di cambiare” di Gawronski-Schettini – percentuali
intorno allo 0,1 per cento.
Tutto secondo le previsioni, insomma, compresi
i numeri roboanti dell’affluenza, imponente, per quanto poco attendibile, visto
che, come ha dimostrato il quotidiano “Il Giornale”, è bastato poco per far
votare cinque volte un immigrato e tre volte una ragazza minorenne. Senza
dimenticare che un sistema che dopo un’ora è già in
grado di comunicare il dato parziale della partecipazione alle urne non appare
tra i più seri, visto che neanche i seggi informatizzati sarebbero in grado di
dare risposte in tempi così rapidi. In ogni caso, sebbene il dato
ufficiale dei tre milioni e 400 mila votanti sia buono soprattutto per la
macchina della propaganda e utile ad alimentare la liturgia delle dichiarazioni
di parte, la partecipazione c’è stata e il popolo italiano si è confermato il
più affezionato all’esercizio del voto, quale che sia, probabilmente
dell’intero pianeta.
A questo punto il Luna Park
delle primarie chiude i battenti. E il centrosinistra dovrà fare i conti
davvero con tutti i dubbi e le incognite che la grande giostra del Partito
Democratico ha cercato di nascondere nella sua vorticosa rivoluzione su se
stessa. La prima riguarda la natura stessa di un voto che è servito a nominare
il segretario di un partito che non c’è. La domanda sorge spontanea: qual è la
linea politica su cui è stato eletto Veltroni se il partito deve ancora essere
fondato dai costituenti? Ed è davvero così sorpassato il metodo antico dei nostri
padri: quello di un partito fatto dai propri iscritti che eleggono, dopo un
dibattito sofferto e democratico, i propri dirigenti? Si dice genericamente (e
un po’ scaramanticamente) dalle parti dell’Unione che un Partito Democratico
forte rafforzerà il governo. Al di là della questione dirompente della doppia
leadership, questa formazione nata in tutta fretta, senza un progetto, una
cultura, un’identità ben definita non rischia soltanto di trasferire sul
governo ciò che già c’è in abbondanza, ovvero incertezza e confusione?
Naturalmente, al di là delle
grandi questioni di principio, c’è poi lo spettro della “coabitazione”, quella
dell’inevitabile dualismo tra le prime donne Romano Prodi e Walter Veltroni,
con cui fare i conti. Un nodo che, al di là delle dichiarazioni di facciata,
non potrà che venire al pettine. “So che Walter sarà un segretario forte,
ma saremo tutti leali” dichiarava ieri il presidente del Consiglio.
Il premier, insomma, si
prepara a fare i conti con il “nuovo” alleato. E i due, ora, dovranno sedersi a
un tavolo e provare ad abbozzare un accenno di rotta comune. Nelle ultime
settimane non sono mancati gli attriti e le incomprensioni. Ad esempio quando
Prodi si trovava a New York per l’Assemblea generale dell’Onu e Veltroni lo
avvertì della sua intenzione di proporre un rimpasto nell’esecutivo, possibilmente
con una robusta cura dimagrante per la squadra di governo. Oppure quando
“l’invito” del segretario del Pd a incidere sul debito pubblico fu seguito
dagli strali lanciati dal Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, contro
la manovra economica. Da allora ogni frase dei due è stata vivisezionata. Le
dichiarazioni di buona volontà si sono susseguite. Le promesse di una civile
convivenza sono risuonate sui giornali e sulle televisioni. E molti hanno
letto, anche in alcune parole di Prodi, la disponibilità a un parziale
“appeasement” rispetto alle mire espansionistiche del nuovo ingombrante
partner. Entrambi i protagonisti, però, sanno che inevitabilmente gli interessi
finiranno per confliggere. E si preparano alla nuova stagione con una simmetrica
preoccupazione.
D’altra parte è proprio nel rapporto con il governo che il Partito Democratico
dovrà definire se stesso, scolpire una sua identità e trovare una strada
politica. C’è chi chiama in ballo la coabitazione di tradizione francese
(Mitterand-Chirac o Chirac-Jospin), oppure, restando nei nostri confini, il
modus (con)vivendi che c’era nella Prima Repubblica tra il segretario della Dc
(azionista di maggioranza delle varie alleanze di governo) e il presidente del
Consiglio. Quale che sia il modello, la miscela appare esplosiva e la deflagrazione
inevitabile. Potrà avvenire nella battaglia sulla Finanziaria e sulle modifiche
da apportare al pacchetto sul welfare, oppure sul restyling della squadra di
governo. In ogni caso un segnale di discontinuità forte dovrà per forza
arrivare dal nuovo leader del Pd. Pena la sua prematura scomparsa politica. Per
dirla con Gianfranco Fini: “Veltroni non può che giurare lealtà a Prodi ma ad
abbracciare un morto si rischia di morire o di fare la fine di Rutelli che,
facendo il vicepremier del politico oggi più impopolare d’Italia, è sparito
dalla circolazione”.