Veltroni non sa se augurarsi la vittoria o la sconfitta di Rutelli
22 Aprile 2008
La situazione nel loft è
tesa. E il nervosismo sale con il passare delle ore, con l’avvicinarsi alla
scadenza del voto di ballottaggio romano. “Questa volta si rischia davvero di
perdere” è il ritornello che viene pronunciato dai dirigenti del Pd un po’ per
timore, un po’ per esorcizzare un pericolo che si fa fatica a riconoscere davvero come tale e come
reale, visto il teorico vantaggio che avrebbe dovuto accompagnare l’avventura
di Francesco Rutelli contro Gianni Alemanno. E invece l’onda d’urto nazionale
ha travolto tutto, arrivando a riaprire una partita apparentemente chiusa, tra
una coalizione schierata al gran completo, con tanto di sinistra radicale al
suo interno, e un centrodestra diviso in quattro rivoli e in quattro candidati scesi
in campo al primo turno. Ora per l’ex ministro dei Beni Culturali si profila
uno scontro all’ultimo voto, nella speranza che un calo dell’affluenza possa –
secondo tradizione – favorire il candidato del centrosinistra. Ma nulla è
scontato, la partita è apertissima. E se sconfitta dovesse essere, la resa dei
conti finirebbe inevitabilmente per coinvolgere Walter Veltroni che vedrebbe
messa in discussione la ragione primigenia della sua nuova avventura politica,
quel “modello Roma” presentato come biglietto da visita scintillante alla
platea nazionale ma già contestato, nelle urne, da una larga fascia
dell’elettorato capitolino.
Per il leader del Partito
Democratico, queste sono, se possibile, ore ancora più delicate di quelle
vissute il 14 aprile mano a mano che la batosta elettorale prendeva forma in
ambito nazionale. Il sottinteso politico di una sconfitta sarebbe semplice da
leggere: se si perde a Roma tutto torna in discussione. Comprese le posizioni
acquisite a colpi di “primarie morbide”. A quel punto la classe dirigente del
Pd non si limiterebbe soltanto a pretendere un mea culpa ma, come per un
allenatore in crisi di risultati, lo spettro delle dimissioni o dell’esonero
forzato inizierebbe ad aleggiare, o perlomeno il segretario si troverebbe a
dover fare molte concessioni ai vari maggiorenti ex Ds o Margherita. D’altra
parte una domanda, posta in prima pagina da Antonio Polito sul Riformista, a
quel punto non potrebbe che risuonare nella mente e forse sulle labbra di
molti: “Se perde a Roma con che faccia Veltroni andrà a Milano o a Venezia a
spiegare come si vince?”.
Ma c’è anche il rovescio
della medaglia con cui fare i conti. Infatti, anche nel caso di una vittoria di
Francesco Rutelli, Veltroni rischia di pagare uno scotto. Il motivo? Semplice,
il rafforzamento sul campo di un diretto concorrente alla leadership del
Partito Democratico che potrebbe salire sul palcoscenico simbolico di una città
come Roma e rubare la scena al suo predecessore, preparandosi un trampolino di
lancio verso nuovi traguardi nazionali e, ovviamente, verso la segreteria.
Questo, però, di fronte ai problemi di sopravvivenza politica del leader dell’opposizione
appare come uno scenario più morbido e come un rischio calcolato e gestibile
per Veltroni. Peraltro, come se non bastasse, il leader del Pd deve anche fare
i conti con la pressione proveniente dal Nord che chiede una sorta di
autogestione federalista. I coordinatori regionali, riuniti ieri a Milano hanno
insistito per ottenere il riconoscimento di una dimensione federale che si
traduca in maggior peso politico a Roma e nell’autonomia delle scelte locali.
Una sorta di “spacchettamento” a cui Veltroni si è opposto, cercando di gettare
acqua sul fuoco, facendo presente a tutti che la strada imboccata è quella
giusta: «In 4 mesi abbiamo fatto un recupero gigantesco, una rivoluzione dolce,
ora dobbiamo continuare la sfida riformista». Ma Roma è lontana e così c’è chi,
tra i segretari regionali, critica la formazione di liste «calate dall’alto» e
chi chiede che il caminetto del Pd, che riunisce i big del partito, venga
abolito per dare più ascolto al territorio.
Quel che è certo è che anche
la partita per la definizione del nuovo organigramma risente dell’attesa del
risultato romano. La spinta dell’area dalemiana in favore di Pierluigi Bersani
è forte ma il segretario potrebbe anche puntare a mantenere i capigruppo
uscenti, se i vari big del partito non trovassero un accordo su tutto lo spostamento
che innescherebbe l’arrivo di Bersani a capo dei deputati. D’altro canto, oltre
al ministro dello Sviluppo economico per la presidenza del gruppo di
Montecitorio c’è anche Piero Fassino. E bisogna capire anche cosa otterrebbero
Franco Marini e Giuseppe Fioroni, altri due azionisti di riferimento del
partito: il presidente uscente del Senato assicura di non essere interessato al
ruolo dicapogruppo a palazzo Madama,
nonostante questa ipotesi sia stata associata a quella di Bersani
alla Camera. Secondo alcune interpretazioni, Marini preferirebbe un ruolo al
partito, magari all’organizzazione o anche alla presidenza. Ma per la
presidenza viene fatto circolare anche il nome di Sergio Mattarella, mentre
potrebbe essere Luigi Zanda a presiedere i senatori del Pd se a Montecitorio
arrivasse Bersani. Il puzzle, insomma, è intricato. E soltanto il risultato di
Roma potrà contribuire a chiarirlo.