Veltroni sul lavoro? Solo vecchie idee raffazzonate
27 Febbraio 2008
Il programma del Partito Democratico sul lavoro malcela le
contraddizioni non risolte tra la robusta sinistra conservatrice ben
rappresentata dal collateralismo con la
CGIL e la pattuglia di “abatini” riformisti reclutati da
Letta e Veltroni.
Potremmo anche riconoscere con soddisfazione che in generale
si è espressa la nostra egemonia politico-culturale: la legge Biagi non è più
un disvalore, la pressione fiscale sul lavoro è eccessiva, la contrattazione
collettiva deve essere decentrata. Ma, a ben vedere, rimangono vive alcune vecchie impostazioni e si mantiene
inalterato quell’approccio concertativo che ha sempre consegnato agli attori
sociali più ottusi un potere di veto sulle decisioni istituzionali.
Emblematica appare in particolare la proposta di immediata riduzione
del prelievo fiscale sui redditi da lavoro dipendente. Se per il Centro-Destra
la spesa fiscale va concentrata sulla sottrazione alla tagliola della
progressività di straordinari, premi e incentivi, il PD si orienta invece all’aumento
indiscriminato delle detrazioni e, in termini inevitabilmente residuali, al
minore prelievo sugli aumenti – altrettanto indiscriminati – della
contrattazione aziendale. In un caso si vuole produrre una forte spinta sui
salari connessi alla flessibilità organizzativa e alla produttività, nell’altro
prevale ancora quella funzione solidale del salario per cui la detassazione è
spalmata moderatamente su tutti. Non siamo ancora alla piena accettazione del
criterio “lavorare meglio per guadagnare meglio”.
Ancor più ambigua è l’idea di un salario minimo mensile
garantito dalla legge a tutti i lavori, frutto dell’incrocio tra un’idea
liberista del prof. Boeri e le richieste garantiste dei precari romani. Per il
prof. Boeri, economista di area PD, è necessario definire per legge un salario
minimo – orario e non mensile – pari al 50% di quello mediamente praticato,
eliminare l’efficacia generalizzata dei contratti collettivi nazionali,
consentire le deroghe in peius a questi sulla base di accordi aziendali senza
scendere al di sotto dei minimi “minimi” di legge. Una sorta di rete protettiva
collocata molto in basso per un gioco negoziale molto più flessibile. Se
spiegata così, la proposta si guadagnerebbe subito un bel sciopero generale ed
una conflittualità che farebbe impallidire quella manifestatasi in occasione
delle timide ipotesi di modifica dell’art.18.
In realtà la soluzione viene presentata come un salario
mensile obbligatorio minimo di 1100 euro per le collaborazioni a progetto
perché è noto agli addetti ai lavori che ogni rapporto di lavoro subordinato –
anche a termine – deve rispettare il contratto collettivo di riferimento. Se
così, la proposta è assurda perché condannerebbe alla sommersione tutte le
prestazioni che in quanto caratterizzate da un modesto contenuto professionale
e da bassa intensità lavorativa prevedono remunerazioni correttamente inferiori.
Si pensi solo al lavoro dello studente concentrato nel fine settimana. La
sinistra insomma continua a dimenticare l’economia dei servizi e quei diffusi
“spezzoni” lavorativi che sono spesso sommersi. Essa rifiuta il lavoro
intermittente e i voucher così come irrigidisce part time e contratti a termine
perché tuttora ancorata al lavoro
standard della produzione industriale seriale.