Veltroni tiene banco sulle riforme ma il Pd non lo segue

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Veltroni tiene banco sulle riforme ma il Pd non lo segue

26 Novembre 2007

Walter Veltroni affronta la prova del dialogo. E fa l’esploratore nel territorio del centrodestra, raccogliendo il cerino consunto dalle mani di Massimo D’Alema, ancora scottato dalla fallimentare esperienza della Bicamerale. La settimana delle consultazioni sulla riforma della legge elettorale inizia oggi con il faccia a faccia con Gianfranco Fini. Poi il sindaco di Roma vedrà l’Udc e la Lega per concludere il mini-girone con il big match con Silvio Berlusconi: un gran finale che rappresenta una sfida e un pericolo per l’uomo nuovo del centrosinistra.

Se quella che inizia oggi appare come una settimana cruciale per ridisegnare la geografia politica sulla legge elettorale e sulle riforme, questi sette giorni di dialogo e passione finiranno per dire qualcosa di più anche sui rapporti interni al centrosinistra e allo stesso Partito Democratico. Il timore diffuso è quello di sempre. I piccoli dell’Unione, nonostante le rassicurazioni, sentono odore di inciucio, mentre il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, prova a placare i malumori, auspicando che il dibattito si sposti poi nella sua sede deputata: il Parlamento.

Finora Veltroni, incaricato da Prodi all’assemblea costituente del Pd del 27 ottobre di portare avanti il dialogo sulle riforme, ha incontrato quasi tutte le forze politiche della maggioranza. Mancano all’appello solo Socialisti e Comunisti Italiani. E se con Udeur, Idv e Verdi le cose non sono andate benissimo, è con la seconda forza della coalizione, ovvero Rifondazione Comunista, che il Pd ha trovato un terreno comune su cui lavorare. Una prima intesa frutto del progressivo avvicinamento di Veltroni al proporzionale. Partito con un deciso rifiuto del sistema tedesco, il leader del Pd ha poi maturato una considerazione diversa, grazie anche al lavoro svolto da tecnici quali Salvatore Vassallo e Stefano Ceccanti che hanno redatto una bozza fatta di un mix tra sistema tedesco e spagnolo e fondato su tre punti cardine: sistema proporzionale, no al premio di maggioranza e no al vincolo di coalizione pre-elettorale. Una virata rispetto agli antichi capisaldi del bipolarismo che lascia sul campo molti scontenti dentro l’Unione.

L’attività di Veltroni è sgradita, ad esempio, al ministro della Difesa, Arturo Parisi, che lo apostrofa così: «Tu sei nostalgico del proporzionale, io dell’Ulivo…». E preoccupa i piccoli. Il vice segretario del Pd, Dario Franceschini, prova a gettare acqua sul fuoco ma il malumore dei cespugli resta palpabile. Il «rischio di inciucio», avverte il presidente dei deputati dei Comunisti Italiani, Pino Sgobio, è dietro l’angolo e dovrebbe allarmare Prodi visto che se si realizzasse «vedrebbe implodere l’Unione con gravissime conseguenze per il bipolarismo». Sulla stessa linea anche i Verdi che spingono per un modello simile a quello delle comunali e continuano a chiedere che si cambi l’approccio stesso alla trattativa, trovando prima una sintesi dentro la maggioranza e poi passando al confronto con la Cdl. «L’assenza di luoghi di confronto all’interno della coalizione – avverte il capogruppo del Sole che Ride, Angelo Bonelli – diventa ogni giorno più difficile da accettare ed è difficile comprendere come, da un lato siamo tutti impegnati a sostenere la Finanziaria, mentre fuori dal Parlamento si parla di leggi elettorali contro i propri alleati e che determinerebbero la fine della coalizione». Duro anche Fabio Mussi che imbraccia la spada in difesa del bipolarismo e boccia uno dei cardini della proposta Veltroni, ovvero le alleanze dopo il voto in base all’omogenità dei programmi. Il leader di Sd non ne vuole proprio sapere di “un sistema italo-tedesco-israelo-spagnolo. Non ci siamo ancora e in particolare sul sistema delle mani libere che rende possibili coalizioni dopo il voto. Qualunque sistema elettorale deve dire non solo quale programma si immagina, ma anche quale sistema di alleanze. Bisogna dire prima dove si sta. Lo spazio del bipolarismo va tutelato politicamente, prendendo in parola quel che si dice: temo che l’autosufficienza di Veltroni nasconda le mani libere. Una cosa che per il centrosinistra sarebbe un errore strategico”.

Lo scetticismo, insomma, è tuttora la cifra stilistica di queste prove tecniche di dialogo. E anche sul fronte del centrodestra le perplessità non mancano, visto che Giulio Tremonti da Saint Vincent faceva notare domenica che «serve un’atmosfera diversa da quella che c’è stata finora» perché è «difficile fare le riforme la mattina e l’opposizione il pomeriggio. «l modello, lo schema delle riforme ci possono anche essere ma la base è l’atmosfera. Come diceva Kant la colomba per volare ha bisogno del sostegno dell’atmosfera. E chi fa l’atmosfera? Un po’ tutti noi”. Il tutto  corredato da una postilla: “Quando hanno fatto la costituzione nello stesso Governo c’erano De Gasperi e Togliatti”.

Se il cammino delle riforme appare accidentato, per Veltroni si annunciano tempi duri anche dentro la sua stessa “casa” politica. Dentro il Partito Democratico il “partito del congresso” sta, infatti, riprendendo ad alzare la voce. E dopo gli iniziali malumori sotterranei sono sempre di più coloro che scelgono di parlare a taccuini aperti. L’impressione è che, al di fuori della cerchia dei veltroniani, la maggioranza degli esponenti della nuova formazione stia maturando la convinzione che il confronto nella sede deputata e naturale del congresso sia imprescindibile. A chiederlo ci sono i fedelissimi di D’Alema e Marini. Ma anche altri, come Enzo Carra, escono allo scoperto chiedendo che il partito si confronti sulle grandi questioni irrisolte e diventi davvero “democratico”. Una richiesta fatta propria anche da Massimo Brutti, da Luigi Zanda e da Pierluigi Castagnetti, uniti nel timore che il meccanismo della cooptazione diventi la regola. E c’è anche chi come il prodiano Franco Monaco ammette che “nella sostanza la richiesta di un congresso non è per nulla sbagliata”. Soprattutto perché tra gli ex popolari resta aperta la questione centrale della collocazione internazionale del partito. Un tema, quella dell’eventuale collocazione del Pd nel Partito Socialista Europeo, rimasta confinata nella periferia del dibattito durante le primarie. E ora destinata a deflagrare con forza.