Veltroni vede vicina la sconfitta e già pensa al dopo elezioni
01 Aprile 2008
Chi vince ha sempre ragione. Ma non sempre chi perde ha torto. La frase è firmata da Pierluigi Bersani e dà l’idea di come il Partito Democratico guardi con crescente realismo a una campagna elettorale che vede i sondaggi ormai cristallizzati da settimane e il vantaggio del centrodestra berlusconian-finiano fermo su quote apparentemente incolmabili. La partita, insomma, sembra segnata. E così, senza dirlo apertamente, si comincia anche a lanciare uno sguardo verso il futuro. Non è casuale che Walter Veltroni abbia detto esplicitamente che, se il risultato dovesse essere negativo, continuerà a “restare leader e ad assolvere al vincolo preso il 14 ottobre con 3 milioni e mezzo di persone. Questo impegno potrà essere considerato superato da una scadenza analoga. Ma fino ad allora ho il dovere etico di guidare il Partito Democratico”.
Una dichiarazione di futuri intenti politici che assomiglia molto a una autoblindatura, a una difesa preventiva di un fortino oggi molto solido ma comunque soggetto alle intemperie del voto. Il messaggio è chiaro: io ho l’investitura popolare e rispondo al popolo delle primarie, non ai capricci degli esponenti di punta degli ex Ds e Margherita. E tenete presente che la designazione del numero uno del Pd dovrà sempre e comunque passare attraverso il voto delle primarie. Nelle parole di Veltroni, poi, c’è anche la volontà di ricordare che questa del 2008 è un’avventura elettorale disperata, giocata per dovere di firma e di leadership. Ma il vero match si giocherà al prossimo giro. Per il momento si guarda al risultato minimo da strappare nelle urne, quel 35% minimo di consensi che metterebbe Walter e i suoi al riparo dalle tempeste e dai malumori degli altri dirigenti di primo piano del partito. Su questo fronte la tregua scoppiata in coincidenza con la campagna elettorale è pronta ad essere rotta, nel caso in cui il Pd non dovesse generare una sostanziosa crescita in termini di voti rispetto alla somma di Ds e Margherita.
In questo senso non sono passate inosservate le critiche di Massimo D’Alema allo slogan “si può fare” ma anche l’invito rivolto a Veltroni da Bersani, con un perentorio “caro Walter, è ora di cambiare passo in questa campagna elettorale”. E anche dalle parti dei parisiani – che mal hanno digerito l’archiviazione dell’esperienza prodiana e le scelte del segretario sulle candidature – esistono dubbi e una riserva di frecce verbali acuminate che, per il momento, restano a giacere nella faretra, in attesa di essere estratte al momento opportuno.
L’auspicio di Veltroni, naturalmente, è che non si riapra la stagione delle trattative interne. Ovviamente molto dipenderà dallo scarto tra l’una e l’altra coalizione e dalla tenuta che il Pd dimostrerà di avere i prossimi 13 e 14 aprile. Non c’è dubbio che la creatura politica veltroniana abbia un problema: quello di aver impostato la campagna elettorale fissando l’obiettivo di rosicare voti al centro. Una missione che sembra non abbia prodotto i risultati concreti sperati. La classe imprenditoriale, e il Nord in generale, apprezza gli sforzi del Pd ma non si sente rappresentata fino in fondo da una compagine strettamente legata al governo Prodi e al suo fallimento. Proprio per rompere questo muro l’ex sindaco di Roma vorrebbe giocare la sua ultima carta potendo contare su un jolly di peso. L’idea, infatti, è quella di presentare alcuni esponenti qualificati della squadra di governo nei prossimi giorni. In particolare l’attesa di tutti è per la casella di ministro dell’Economia. Per il titolare eventuale del dicastero di Via XX Settembre Veltroni vorrebbe un nome che potesse rassicurare il ceto medio e conquistare voti. L’ideale, per questo scopo, sarebbe reclutare Mario Monti sotto le insegne di un governo retto dal Pd. Ma questo desiderio, neppure tanto proibito e nascosto, alla fine rischia di scontrarsi con la ritrosia dell’ex commissario europeo alla concorrenza. Costringendo il candidato premier del centrosinistra a ripiegare su candidati di ben minore cabotaggio, candidati incapaci di accendere in extremis la residua fiammella della possibile rimonta e dare una scossa alla campagna elettorale.