Vent’anni fa, una crisi dimenticata: gli ostaggi occidentali di Saddam Hussein
03 Aprile 2010
Quando Inglesi e Francesi dopo la prima guerra mondiale disegnarono a tavolino i confini degli attuali Paesi mediorientali e vi misero alla testa personaggi a loro graditi, avendo in mente solo i propri interessi commerciali e petroliferi, non immaginavano i problemi secolari che stavano creando. Anche l’origine dell’attuale crisi irakena va fatta risalire al trattato di pace del 1918, con cui venne creato l’emirato del Kuwait per impedire all’Iraq un dignitoso sbocco al mare.
Quando l’Iraq invase il Kuwait il 2 agosto del 1990 ritenendolo nient’altro che una sua provincia, non aveva ancora ufficialmente terminato il conflitto con l’Iran iniziato dieci anni prima. Iniziò così la vicenda del Golfo del ’90-’91, che fu la prima crisi planetaria dopo la guerra fredda. E quando la comunità internazionale si preparò a rispondere con la forza al regime di Saddam, costui reagì con una mossa dissuasiva: il sequestro di migliaia di cittadini stranieri che si trovavano in Iraq per i motivi più disparati, dal lavoro al turismo. Alcuni furono impiegati come scudi umani presso arsenali, installazioni militari, fabbriche strategicamente importanti, postazioni radar che erano nel mirino della coalizione. Lo scopo della mossa saddamita era duplice: da una parte convincere i Paesi della vasta coalizione che si stava formando a non bombardare gli obiettivi irakeni in quanto ciò avrebbe causato la morte degli scudi umani. Dall’altra, creare una frattura nell’ambito di ciascuno Stato occidentale fra i Governi e le rispettive opinioni pubbliche.
Si trattò del più grande sequestro di ostaggi civili mai avvenuto (oltre diecimila) e in questa vicenda emersero chiaramente i caratteri distintivi di ciascuna nazionalità. Chi reagì piagnucolando e chi con fatalismo, chi con fermezza e chi con isterismo, chi con la trattativa e chi col sotterfugio. I Giapponesi, ad esempio, affrontarono il sequestro con distaccato stoicismo e quando arrivò il momento dei primi rilasci alcuni diplomatici si rifiutarono di essere liberati per condividere le sorti dei loro connazionali.
Per quanto riguarda gli Italiani, era difficile anche sapere dove fossero tutti gli ostaggi; ogni tanto si perdevano le tracce di qualcuno, sgattaiolato via per motivi “sentimentali”. Quando apparve evidente che i rientri in patria sarebbero avvenuti non in un blocco unico ma scaglionati nel tempo, ognuno si diede da fare per passare davanti agli altri mediante puerili scuse o penosi episodi di autolesionismo: ci fu chi diede un calcio a una pietra per fratturarsi un dito del piede, chi ingerì quantità industriali di zucchero per apparire diabetico, chi ingurgitò decine di tazze di caffè per risultare iperteso. Il 17 ottobre del 1990, poi, gli ostaggi italiani ospiti del “Babilon” partirono in corteo dall’hotel e occuparono l’ambasciata (caso unico, nessun altro Paese cadde così in basso), poi a turno fecero finta di fare lo sciopero della fame.
In Italia, intanto, la vicenda degli ostaggi veniva seguita con un interesse che si potrebbe definire eufemisticamente medio-basso, e non soltanto a Ferragosto, quando può cascare il mondo che nessuno se ne accorge. Il primo giornalista italiano apparve in Iraq solo dopo tre settimane dall’inizio del maxisequestro. A Baghdad i dipendenti dell’ambasciata, considerato il superlavoro determinato dalla crisi, pretesero soldi in più, ritenendo evidentemente di non essere già pagati abbastanza. La faccenda diventò di dominio pubblico e i lettori li criticarono sui giornali.
Quando la comunità internazionale ricorse alle sanzioni economiche verso il regime iracheno, quest’arma spuntata si rivelò come sempre inutile e controproducente. L’ultimo a soffrire la fame fu Saddam, mentre i primi ad avvertire negativamente gli effetti delle sanzioni furono proprio gli ostaggi rinchiusi negli alberghi di Baghdad (il Rashid, il Mansur, il Babilon, il Palestine) che ricevettero un’alimentazione insufficiente. La nostra ambasciata cercò di rimediare fornendo i soldi delle razioni direttamente agli ostaggi, con la conseguenza che alcuni di loro impiegarono il denaro per acquistare bevande alcoliche, altri per comprare dollari al mercato nero.
L’Europa, tanto per cambiare, non brillò per unitarietà. Il Consiglio europeo vietò la trattativa dei Governi col raiss, ma a quel punto si passò alla trattativa privata. Venne allora a crearsi un vero e proprio “mercato delle vacche” ad opera di personalità varie, non si sa se più desiderose di contribuire alla soluzione di un problema umanitario o di giovare alla propria immagine. Ad ogni personaggio disposto ad andare in Iraq a genuflettersi davanti a Saddam e a parlar male dell’Occidente, in base al suo rango presente o passato corrispondeva la liberazione di un certo numero di ostaggi, ma col contagocce, in maniera da fingere di risolvere il problema lasciandolo in realtà irrisolto.
I prigionieri inglesi, ad esempio, erano un migliaio e il “mercato degli ostaggi” determinò la liberazione di un’ottantina di essi. Il cantante pop Cat Stevens, fattosi maomettano col nome di Yusuf Islam, ne portò via quattro, l’ex premier Edward Heat ne portò via 28, il francese Jean-Marie Le Pen ne fece liberare 35, Tony Benn, deputato laburista, ne liberò sei e altri dieci vennero fatti liberare dall’ex cancelliere tedesco Willy Brandt. Gli ostaggi tedeschi erano oltre 250. Brandt riuscì a portarsene via parecchi ma liberò anche 122 americani, 19 italiani (beffando e scavalcando l’Italia, allora presidente di turno della Comunità Europea), 11 olandesi, 10 britannici, e uno ciascuno da Canada, Portogallo, Grecia, Belgio, Lussemburgo, Svizzera, Svezia, Norvegia, Finlandia e Irlanda. Ne seguirono furiose polemiche.
Se i personaggi occidentali che si recavano in Iraq erano parlamentari o accademici il numero di ostaggi liberati era piuttosto basso, come nel caso degli spagnoli: i parlamentari Cristina Almeida e Ruiz Mateos di “Izquierda Democratica”, assieme a Carmen Mestre presidentessa della “Cruz Roja” e al professor Villapalos, magnifico rettore dell’università di Madrid, se ne portarono via 15. Stesso dicasi per i francesi (il presidente dell’associazione per l’amicizia franco-irakena Munier ne portò via dieci), per i greci (Papulias e Zoha, ex ministri del Pasok, ne portarono via nove) e per gli svedesi (Svenson, presidente dell’associazione islamico-svedese, ne portò con sè quattro).
Se il rango del “mercante di ostaggi” aumentava, saliva anche il numero dei liberati (l’ex premier Nakasone, ad esempio, ottenne la liberazione di 77 giapponesi) e se era un Capo di Stato (anche emerito) ad abbassarsi ad omaggiare il raiss, gli ostaggi della sua nazionalità venivano liberati tutti. Lo fece uno solo: l’austriaco Kurt Waldheim che il 25 agosto si portò via tutti i suoi connazionali, scatenando però dure polemiche a causa delle foto che lo ritraevano sorridente in compagnia del dittatore irakeno. Un caso particolare fu quello di 25 ostaggi portoghesi, che vennero liberati subito. Il fatto che fossero tutti operai che avevano appena finito di sistemare i marmi nel palazzo presidenziale di Saddam (lo stesso palazzo che nel 2003 sarebbe diventato il quartier generale della Coalizione anti-Saddam) non è estraneo alla vicenda.
E veniamo ai 400 italiani. Mario Capanna, allora deputato dei verdi-arcobaleno, ne portò via dieci, Gianfranco Fini (recatosi sul posto con Le Pen e una delegazione di partiti europei di destra) ne fece liberare quindici, monsignor Ilarione Capucci, alla testa di una delegazione dell’ARCI e dell’ACLI, ne fece liberare 70 scambiandoli con un notevole carico di medicinali, mentre Roberto Formigoni, allora vicepresidente del Parlamento Europeo, se ne portò via cinquanta proprio alla vigilia della decisione di Saddam di liberarli tutti, indipendentemente dalle loro nazionalità.
Durante la crisi irakena avvenne un fatto storico di grande rilevanza: la riunificazione tedesca. In quella circostanza vari esponenti della leadership irakena, nel manifestare soddisfazione e solidarietà con la Germania, chiesero all’Occidente: “Perché avete dato un giudizio così negativo su un’altra riunificazione altrettanto sacrosanta, quella del Kuwait con la sua madrepatria, l’Iraq?”. Ma l’ONU non riconobbe alcuna presunta "riunificazione irakena" e fu inflessibile nel rispondere con le armi all’invasione manu militari di uno Stato sovrano.