Venti di guerra nell’Artico: le grandi potenze si sfidano tra i ghiacci
01 Maggio 2009
A fine marzo 2009, il quotidiano canadese Globe and Mail pubblicava la notizia, fino ad allora rimasta sotto silenzio, secondo cui nell’estate precedente la Marina canadese sarebbe stata costretta ad intervenire nel Passaggio a Nord Ovest (Pno) in seguito all’avvistamento di un sottomarino non identificato. A rendere più sospetto l’evento è il fatto che l’avvistamento sarebbe avvenuto a soli dieci giorni di distanza da un’esplosione rilevata nelle stesse acque da un gruppo di cacciatori Inuit. Questo è solo il più recente e misterioso episodio di una gara sempre più agguerrita tra le nazioni subartiche, che ha ormai assunto i caratteri di una crescente militarizzazione della regione e minaccia di avere ramificazioni globali.
Non è un caso che, negli ultimi tempi, il numero degli attori che tentano di inserirsi nella partita dell’Artico sia significativamente cresciuto. Tra questi figurano la Cina, che nel 2008 ha ottenuto lo statuto di osservatore presso il Consiglio dell’Artico (Arctic Council); la Corea del Sud, che essendo un’importante potenza mercantile guarda con interesse l’aprirsi di potenziali rotte e si sta a sua volta muovendo per diventare osservatore; il Giappone, il cui ingresso nell’organo multilaterale è stato auspicato dallo stesso presidente della commissione statunitense per la ricerca sull’Artico. Davanti a questi crescenti appetiti, un recente documento russo non esclude l’eventualità di un conflitto armato per le risorse dell’Artico, mentre un rapporto dell’Unione Europea del 2008 sottolinea “potenziali conseguenze per la stabilità internazionale e gli interessi di sicurezza europei”.
Un clima surriscaldato
Gli Stati Uniti, che finora erano rimasti piuttosto tranquilli, hanno aggiornato la loro politica artica del 1994 con una direttiva presidenziale diramata lo scorso gennaio. Il nuovo documento sposta l’accento dall’interesse quasi esclusivamente scientifico del passato a quello per l’affermazione di una più netta sovranità nell’area. La direttiva, infatti, afferma che “gli Stati Uniti sono una nazione artica, con forti e variegati interessi nella regione… compresi ampi e fondamentali interessi di sicurezza nazionale”. Tra questi, si richiamano, oltre alle risorse, la libertà di navigazione, la sicurezza marittima, l’avvertimento antimissilistico anticipato, e la dissuasione strategica.
Dal canto suo, la Nato, che in gennaio ha ospitato a Reykjavik un seminario sulle “prospettive della sicurezza nell’estremo Nord” ha auspicato, tramite il suo Segretario Generale, la costituzione di una presenza militare permanente nell’Artico. Il coinvolgimento della Nato deriva anche dal nuovo interesse per la sicurezza energetica che l’Alleanza si è data.
La risposta russa non si è fatta attendere, e l’inviato russo presso la Nato ha dichiarato: “La Nato non ha alcun posto nell’Artico”. Ma è dal 2007 che la Russia punta a rafforzare la propria presenza militare nella zona attraverso la riattivazione del pattugliamento con bombardieri strategici TU 95, e occasionalmente, con i più performanti TU 160. Nel luglio 2008, poi, la Marina russa annunciava il suo ritorno nell’Artico. Mentre a fine marzo 2009, il Consiglio russo per la sicurezza ha varato una nuova strategia, che stabilisce lo sviluppo delle risorse artiche come priorità per il 2020 e annuncia la creazione di una forza speciale, provvista di basi militari lungo la costa settentrionale, e di una rete di intelligence. Contemporaneamente, la Russia si prepara a varare leggi per disciplinare la navigazione del Passaggio a Nord-Est, lungo la costa siberiana.
La Commissione Europea, dal canto suo, ha adottato nel novembre del 2008 la Comunicazione L’Unione Europea e la Regione Artica con la quale si delinea una visione degli interessi e degli obiettivi politici della Ue su tre direttrici: la protezione dell’Artico e della sua popolazione, l’uso sostenibile delle sue risorse, e la governance multilaterale dell’Artico. Tale Comunicazione, che rappresenta il primo passo verso una politica artica europea, identifica inoltre dei percorsi per la formulazione di azioni coordinate.
Intanto il Canada continua sulla strada dell’affermazione della propria sovranità nell’area, considerando il Pno come acque interne, rivendicate a titolo storico in nome dell’uso da parte delle popolazioni autoctone. Nel dicembre 2008, il governo canadese ha inoltre presentato un progetto di legge teso ad ampliare la zona di applicazione della legge sull’inquinamento delle acque artiche, estendendo l’obbligo di notifica alle navi in transito dalle 100 alle 200 miglia.
Petrolio e gas
La crescente militarizzazione assume i contorni di un classico dilemma di sicurezza: ci sono interessi convergenti data la presenza di vaste risorse e opportunità economiche, ma rimangono incerti i diritti di proprietà dei singoli Stati derivanti dalle disposizioni della Convenzione Onu sul diritto del mare, ed è imprevedibile la condotta che ciascuno di essi potrebbe adottare all’insorgere di eventuali conflitti di delimitazione. Il tutto è aggravato dall’impatto dello scioglimento dei ghiacci polari, che renderà accessibili nuove risorse e rotte di navigazione. Ma, specialmente per Canada e Russia, anche da esigenze di consenso elettorale.
Nel 2008, l’U.S. Geological Survey ha reso nota una valutazione più accurata delle risorse energetiche presenti, fondata su un calcolo probabilistico effettuato sulle 33 province geologiche della regione. La somma delle stime medie di tutte le province indicherebbe la presenza di 90 miliardi di barili di petrolio e di circa 47.3 triliardi di metri cubi di gas. Altri 44 miliardi di barili di fluidi gassosi potrebbero celarsi nel sottosuolo. Si ritiene, tuttavia, che l’84% di tutte queste risorse si trovi in mare aperto. Ciò spiega l’animosità e l’ostentazione di forza crescenti: infatti, in base all’articolo 76 della Convenzione Onu sul diritto del mare, i paesi membri hanno prerogative di sfruttamento delle acque e dei fondali fino a 200 miglia marine dalle rispettive linee di base, ma possono rivendicare gli stessi diritti su uno spazio che si estende per ulteriori 60 miglia dai sedimenti rocciosi della base della parete continentale, oppure per 100 miglia dall’isobata dei 2500 metri, anche se per una distanza non superiore alle 350 miglia totali dalla linea base. La sfida dunque è quella di poter dimostrare la fondatezza delle proprie pretese sull’estensione più ampia possibile.
Nonostante il clima teso, la possibilità di fruizione rimane virtuale. Attualmente, secondo un sondaggio su 125 compagnie marittime di varie regioni, condotto tra il 2007 e il 2008 da Fréderic Lasserre, professore di geografia all’Université Laval, solamente 11 sarebbero effettivamente interessate a usare il Pno. Al massimo guarderebbero al più sicuro passaggio a Nord Est. D’altro lato, affinché lo sfruttamento dei fondali sia redditizio, sarebbe necessaria un’impennata del prezzo del greggio sopra i 100 dollari. Inoltre, in entrambi gli scenari, i rischi ecologici sarebbero enormi. Infatti, come ha dimostrato l’incidente della Exxon Valdez al largo delle coste dell’Alaska nel 1989, l’intervento per emergenze ecologiche in acque con presenza di ghiaccio rimane estremamente difficoltoso.
Ciononostante , la posta è elevata per un gioco che è sia giuridico che scientifico. Gli stati circumpolari hanno infatti avviato le attività di rilevamento, al fine di arrivare a una mappatura dei fondali e depositare le proprie rivendicazioni presso la Commissione delle Nazioni Unite sui Limiti della Piattaforma Continentale. La Russia, il cui fascicolo è stato rifiutato nel 2001, rivendica un’area di 460.000 miglia quadrate e punta a dimostrare i suoi diritti sulla catena di Lomonosov, mentre contesta la delimitazione norvegese nel mare di Barents depositata nel 2006. Per dare forza alla propria posizione, nel dicembre del 2007, Mosca ha inviato la portaerei Kuznetsov in esercitazioni presso una piattaforma petrolifera norvegese nel mare di Barents.
Il Canada ha tempo fino al 2013 per depositare la propria richiesta, ma Ruth Jackson, una ricercatrice del Geological Survey of Canada ritiene che il paese abbia delle buone carte da giocare. Anche se la strategia del governo canadese è di non fare rivelazioni prima della data di deposito, si sa che mira al lembo occidentale della Catena di Lomonosov. Gli Stati Uniti non hanno ancora ratificato la Convenzione, ma una direttiva presidenziale del 2009 raccomandava al Senato di procedere. Gli Usa sono molto attivi nelle ricerche geologiche, soprattutto nel Mare di Beaufort, dove nonostante le divergenze stanno lavorando insieme al governo canadese.
Riconoscendo i rischi di un’escalation, gli stati polari stanno portando avanti parallelamente negoziati per prevenire ulteriori tensioni. Il Consiglio Artico si sta dimostrando lo strumento piu efficace per gestire tali discordie e il Canada, in particolare, ha intensificato la sua attività diplomatica. Che la soluzione possa essere la creazione di un parco internazionale sul modello dell’Antartide, come proposto da Borgerson ed Antrim sul New York Times appare improbabile, ma è certo che, per stemperare le tensioni, una transazione si renderà necessaria. Resta da vedere come alla fine saranno distribuiti gli oneri e i benefici.
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