Verità cristiana, tradizione classica, speranze moderne. Ecco don Gianni

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Verità cristiana, tradizione classica, speranze moderne. Ecco don Gianni

24 Maggio 2009

Queste pagine autobiografiche furono pubblicate dapprima nella rivista giovanile "Il Paradosso", n. 23-24, settembre 1960, poi nel vol. a più mani La generazione degli anni difficili, a cura di E. A. Albertoni e R. Palmieri, Bari, Laterza, 1962, pp. 67-73, e infine in G. Baget Bozzo, I tempi e l’eterno. Intervista su un’esperienza teologica, a cura di C. Leonardi e G. Tassani, Genova, Marietti, 1988, pp. 134-139.

La formula autobiografica mi è abitualmente difficile: non so quanto in particolare l’esperienza passata colori il ricordo più antico: né so quanto delle autobiografie possano valere per un giudizio oggettivo. La vera cronaca è sempre di un fatto, di un avvenimento oggettivo vissuto, l’espressione di qualcosa che trascende il singolo, insomma: gli antichi, che conoscevano quasi soltanto la “cronaca”, la storia vissuta, che intendevano la storiografia come opus oratorium, non conoscevano il genere letterario dei souvenirs.

Risponderò dunque cercando di fare una storia ideale, una storia delle idee e non quella della persona, che non avrebbe alcun interesse.

Non avevo, da studente liceale, alcun vero interesse politico, ma solo religioso: il mio interesse per la politica non andava oltre ad una certa simpatia per i cattolici in essa.

E curiosamente fu questa la via, per quanto io ricordi, che mi pose il problema del fascismo. Non per l’ordine interno, ma solo per quello internazionale: il problema delle aggressione, il Belgio e la Grecia furono il mio punto di crisi. Può uno Stato sovvertire con la violenza di un altro Stato? Quando questo è giusto?

La separazione del mondo dalla Fede conduceva alla guerra e alla rovina: non c’era diritto né legge, né verità senza il Cristianesimo. I messaggi pontifici e le lezioni del professore di religione, l’attuale arcivescovo di Genova, fecero la prima connessione tra la Fede e la politica.

Tuttavia i contatti con la DC non stabilizzarono questo legame. La Dc genovese, diretta da Taviani, era troppo “politica” e troppo a “sinistra” (Taviani era allora un comunista bianco, che sosteneva la nazionalizzazione di ogni impresa che superasse le cento unità), non esprimeva questa connessione.
D’altro canto, io ero condotto dal contatto con al DC a dare un giudizio diverso della storia passata. L’On. Taviani sosteneva che la Chiesa non faceva che sanzionare i movimenti storici nati al di fuori di essa: ora stava benedicendo il liberalismo, domani avrebbe benedetto il socialismo. La unità della mia visione storica diventava difficile. Da cattolico cattolico, diventavo cattolico moderno; il mio amore per Pio IX diventava una difficile fedeltà.

Qui avvennero per me due incontri decisivi: Maritain e Dossetti. Da loro appresi che si poteva ben essere cristiani: e che anzi la più piena fedeltà all’umanesimo era ad un tempo la più vera fedeltà al tomismo e al Cristianesimo. C’era un ‘integrismo’ contro cui lottare, un integrismo che impediva la fedeltà dei cristiani agli umili e agli oppressi, che ci separava dagli operai ed alimentava il comunismo: e ‘integrismo’ era una parola del cardinale Suhard.

Per quanto negativo sia oggi il mio giudizio su quelle posizioni debbo pur dire che esse furono per me di grande importanza e, per quanto possa giudicare, esse mi diedero dei valori che giudico irreversibili. Cioè, cominciai a guardare con occhio umile gli altri uomini, la loro storia ed i loro movimenti.

Ho amato ed ammirato molte figure moderne, Gramsci in particolare: ho amato la loro fede, la loro speranza, la loro dedizione  e lo faccio tuttora. Ho capito quanta bontà circolava nel mondo anche al di fuori della Chiesa visibile ed anzi quanto più dotati, nell’ordine civile, era i non credenti che non i credenti. Mi parve anzi che i credenti cercassero la via larga e che la loro religione servisse ad impedire l’eroismo, a valere da alibi alla dedizione sino alla morte.

Da allora cominciai a temere il fariseismo.

Le nuove idee mi avevano reso un attivo militante della corrente ‘dossettiana’ della Dc, specie nel campo giovanile. Sentivo il peso che il potere , gli interessi, il successo facevano gravare sul partito: e speravo che il movimento giovanile diventasse un’altra cosa, cioè che esso fosse aperto a degli ideali civili, che in esso nascessero delle coscienze intransigentemente donate alla verità capaci di offrire una via di rinnovamento politico effettivo. Tuttavia questo era veramente difficile: nel ’51 mi sentivo veramente soffocare e mi convincevo che la DC era una forza incapace di esprimere e di portare avanti il vero disinteresse, la vera dedizione, l’autentica onestà civile. Personalmente, debbo dire che i miei anni difficile cominciavano allora. Fu di grande importanza per me l’incontro con gli uomini della sinistra cristiana, che lasciavano allora il Partito comunista, per ragioni diverse ma non eterogenee alle mie. Con alcuni di essi facemmo una rivista “Terza generazione”, ‘fuori dalle parti’.

Circolava ancora una strana teoria lanciata dall’on. Dossetti al suo ritiro dalla vita politica (per motivi e con delle tesi che si rivelarono poi sostanzialmente eterogenee alle mie: l’on. Dossetti sosteneva l’esistenza di un errore ‘semipelagiano’ tra i cattolici, di origini molto antiche e da cui era nato un razionalismo ed un temporalismo ecclesiastico: la via di ripresa era al di fuori dell’ordine civile, laddove per noi il punto fermo era l’apporto della verità e della vita cristiana alla pienezza civile). Tale teoria, che si rivelò un puro strumento tattico, sosteneva che c’era un piano della conservazione, da lasciarsi alla Dc; un piano di rinnovamento, che doveva essere la nostra parte di eredità. Posto quello che si è detto, è ovvio che le concezioni del ‘piano superiore’ nostra e dell’on. Dossetti dovevano essere moto diverse.

“Terza generazione” si difendeva dalle parti, con un certo giovanilismo apoliticistico (era il prezzo che pagava alla teoria dei due piani ed alla Dc). La tesi centrale era questa: iniziative morale dei giovani, tendenti ad aiutare lo sviluppo dell’Italia rurale, depressa od arretrata, costituivano la base per un graduale rinnovamento sia culturale che politico del paese. Formare delle coscienze nell’azione per superare la decadenza e la frattura civile del paese ci sembra l’unica via di ripresa. Mi è molto chiara oggi l’immaturità di tale posizione: essa può essere forse valida in un regime totalitario, è certamente sbagliata in un regime libero, com’è nonostante la corruzione il clientelismo, il partitismo, l’attuale regime politico italiano.

Comunque essa non ebbe successo. Ed io ne dedussi erroneamente, che essa era sbagliata in principio, che io dovevo fare il cammino a ritroso e ritornare a militare nella Dc. Ritornai nel ’55 nella Dc genovese: e ringrazio questo ritorno, perché esso consumò la teoria dei due piani. La Dc del ’55 era profondamente corrotta, la menzogna, il favoritismo, l’imbroglio, il favore come base di voto, la sistemazione delle persone, vi erano tutto: non vi era altro. L’on. Taviani era ormai un uomo del potere, un futuro doroteo: per reazione al malcostume e sotto l’impressione della destalinizzazione appoggiai la sinistra. Come consigliere comunale, sostenni nel ’56 si dovesse compiere un tentativo verso il Pci invece che accettare i voti determinanti del Msi, voluti allora dal medesimo sindacato Pertusio che, mutando i tempi doveva respingerli nel’60 ad aderire alle manifestazioni antimissine di luglio.
Tuttavia la mia crisi era più radicale. La sintesi del 46 (Maritain-Dossetti-Dc) andava in pezzi. “I falsi profeti si conoscono dai frutti”: ed i frutti stavano innanzi a me in modo tale che essi chiamavano a gran voce l’errore, la falsa dottrina come loro causa. Tutto mi mancava, ma mi rimaneva ciò che sulla terra è più essenziale per un cattolico, la parola del Pontefice Romano.

Nulla, in questa parola, che mi obbligasse a ripudiare ciò che avevo amato negli ideali moderni. Il ripudio del machiavellismo, del potere-verità, del cinismo, dell’idolatria dell’astuzia e della forza, che nel pensiero moderno corrode e distrugge i più alti pensieri, umilia i più alti ideali, consentiva una fede piena, assoluta, con un vigore da utopia, ma, con la concretezza e l’umanità della Fede e della tradizione, nella congiunzione tra politica e verità.

Uno Stato che sapesse parlare al popolo il linguaggio della verità, in cui fosse qualcosa della divina passione della giustizia: tutto questo palpitava dentro la pagina pontificia, dentro la tradizione cristiana. Perché tutto ciò doveva rimanere annebbiato dalla cospirazione del clericalismo e del laicismo, che la DC congiungeva efficacemente, unendo la passione clericale per il potere delle dottrine laiciste? Perché il nome cristiano doveva essere usurpato dal clericolaicismo?

La soffocante commistione e deturpazione della dignità della Chiesa e di quella dello Stato in un connubio in cui da una parte e dall’altra si sacrificavano i principi agli interessi, non poteva cedere il passo ad una reale e pacifica distinzione, secondo il principio fondamentale del Signore in questa mate ira: date a Cesare… quel che è di Cesare ed a Dio quel che è di Dio? Per far questo non era necessario staccarsi di un solo millimetro dalla Chiesa e dalla dottrina cattolica: bastava aderirvi con tutta l’anima, la mente ed il cuore. E al contempo bisognava aderire fermamente all’ordine civile: bisognava essere intransigente contro ogni forza che feriva la città nell’anima, che violava la giustizia, che seminava lo scetticismo, il cinismo e la sfiducia, contro le forze che umiliavano lo Stato e snaturavano la nazione nella sua tradizione classica e cristiana.

La verità cristiana, la tradizione classica, le speranze moderne erano fatte per vivere insieme in unità non per contrapporsi. Spezzare la loro unione voleva dire degradare l’umano ed esiliare il divino.
Con ciò potevo ritrovare l’unità, non l’unità nell’errore, l’unità ottenuta con la svalutazione della parola pontificia e la tradizione cristiana, come Maritain e Dossetti e la Dc l’avevano offerta ai miei vent’anni. In altro modo, nella pace di Dio che trascende ogni senso.

Mi permetterò  di citare le parole che scrivevo nel primo numero di “Ordine civile” motivando il titolo ed indicando la linea ideale della rivista:

“Che cosa significa ‘ordine civile’? Significa l’ordine proprio dell’uomo che solo in società vive bene, nella totalità del significato di questa parola. Oggi che tanti svalutano la tradizione classica, rifluita in quella cristiana ed in essa vivificata, sentiamo il valore e la dignità di queste parole della Politica che sono l’eco dell’esempio e dell’insegnamento di Socrate. Nell’ordine civile l’individuo dimentica ciò che è particolare e materiale e trova la dignità dello spirituale dell’universale. Un cristiano trova questa legge della natura nello stesso ordine della Vita Increata cui è chiamato a partecipare. Noi vogliamo tornare a questo senso della dignità della vita civile che è il filo d’oro della nostra storia ed il vero senso in cui si poté parlare di Risorgimento d’Italia nel secolo scorso: quando l’alta predicazione mazziniana, la feconda idealità pratica del Cavour, la santa fedeltà di Pio IX a ciò che era più alto nella natura e nella società civile, diedero alla storia d’Italia di rivivere, purtroppo effimeramente per la lacerazione e la contraddizione delle diverse verità, per la loro in comunicazione, un nuovo momento universale della sua storia. È a questo antico e semplice concetto in cui Classicità, Cristianesimo, Risorgimento comunicano, in cui si ha quindi la vera unità della storia d’Italia che ci rifacciamo, dicendo ‘ordine civile’”.