Vi spiego perché l’apprendistato serve e perché la sinistra ci ha criticato
25 Gennaio 2010
La sinistra è una sorta di Re Mida della politica: trasforma in oro tutto quello che fa. Così, in campo scolastico, il Governo Prodi, nella legge finanziaria del 2007 – quella che "ne ha combinate di più di Carlo in Francia" – ha pensato bene di stabilire in un decennio (da 6 a 16 anni) la durata del diritto-dovere d’istruzione che lo Stato deve richiedere e garantire ai cittadini. Così, ha suscitato un vespaio di polemiche l’emendamento da me presentato al "collegato lavoro" (di cui sono relatore), già approvato in sede referente in Commissione e calendarizzato in Aula alla Camera (dovrà poi tornare al Senato per la quarta – ed auspicabilmente conclusiva – lettura).
Il Governo, che ovviamente appoggia l’emendamento, è stato accusato, una volta di più, di voler fare "carta straccia" delle riforme e dei diritti dei cittadini. Nessuno ovviamente fa notare che, nella precedente legislatura, non sono stati modificati gli ordinamenti scolastici; e che, pertanto, i due anni d’istruzione, successivi al diploma di scuola media, non consentono ai ragazzi di acquisire alcun titolo di studio.
In sostanza, si è introdotto uno "scampolo" di istruzione spesso ritenuto inutile da parte dei ragazzi che non intendono continuare gli studi. E’ sfuggito, altresì, ad un dibattito spesso orientato, un aspetto molto particolare e significativo. La legge stabilisce, infatti, che l’obbligo di istruzione possa essere assolto anche mediante la frequenza di percorsi organizzati dalle strutture, pubbliche e private, del sistema della formazione professionale regionale: si tratta di un mondo, contiguo al sindacato e ad altre associazioni del mondo cattolico, che può vantare sicuramente dei punti di eccellenza, ma che, in generale, non è proprio un esempio di buona formazione. Ecco perché l’emendamento – se sarà approvato in via definitiva – non toglierà nulla ai ragazzi ma riconoscerà loro un’opportunità in più: quella di entrare nel mercato del lavoro a 15 anni con un rapporto, come l’apprendistato, a causa mista e ad alto contenuto formativo, adempiendo nel contempo all’obbligo di istruzione.
Il Governo, infatti, non intende modificare – tanto in via di diritto quanto di fatto – la norma che ha elevato a 16 anni l’età minima per l’accesso al lavoro. A nessuno sarà consentito di entrare comunque nel mercato del lavoro prima di aver compiuto 16 anni e di fare l’operaio o l’impiegato a 15 anni. Chi vuole potrà fare l’apprendista perché si riconosce a tale rapporto un contenuto prevalente d’istruzione e formazione.
I riferimenti normativi dell’emendamento non riguardano, poi, il contratto di apprendistato tradizionale (che conduce pur sempre ad acquisire una qualifica), ma il rapporto previsto e regolato dalla legge Biagi, dislocato su tre livelli allo scopo di consentire ai giovani di studiare e lavorare fino a percorrere l’intero ciclo formativo (compresi conseguimento del diploma e della laurea). L’articolo 48 della citata legge – a cui si riferisce l’emendamento – stabilisce, addirittura, che "la regolamentazione dei profili dell’apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione è rimessa alle regioni", d’intesa con i Ministeri del Lavoro e dell’Istruzione, sentite le parti sociali.
Quanto previsto dall’emendamento diventerà operante solo a valle di tale percorso. Quindi, non ci sarà nessun artigiano in Italia che, il giorno dopo la pubblicazione della legge sulla Gazzetta Ufficiale, potrà assumere come apprendista un quindicenne, se nella sua regione non sarà ancora intervenuto e compiuto quel processo prefigurato nell’articolo 48, di cui saranno protagonisti le istituzioni e le parti sociali. Ecco perché sono molto pretestuose le critiche avanzate. Non ha senso una contrapposizione tra scuola e lavoro. E non è accettabile il disconoscimento del grande valore culturale e formativo intrinseco all’esperienza lavorativa.