«Vi spiego perché l’autonomia rafforza (e non contrasta) l’unità nazionale»

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«Vi spiego perché l’autonomia rafforza (e non contrasta) l’unità nazionale»

27 Settembre 2017

Ormai manca poco meno di un mese. Il 22 ottobre i cittadini di Lombardia e Veneto saranno chiamati alla urne per il referendum attraverso il quale le due regioni del Nord, in sostanza, chiedono maggiore autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria. Anche se il referendum ha solo valore consultivo e non vincolante, una netta vittoria del Si avrebbe un impatto politico tale da costringere Parlamento e Governo a dare seguito alle istanze di autonomia. C’è chi dice che questa consultazione contraddice l’ “unità nazionale”, chi invece sostiene che sia “utile per tutto il Paese”. Per capire meglio di cosa si tratta e cosa ci sia in ballo, l’Occidentale ha raccolto il punto di vista del professor Luca Antonini, docente di diritto costituzionale presso l’Università di Padova.

Professore, tra meno di un mese in Lombardia e Veneto ci sarà il referendum sulle autonomie. C’è chi dice che vincendo il “Si” cambierà molto, c’è invece chi dice che cambierà poco o nulla. Come stanno le cose?

Se ci sarà una fortissima partecipazione popolare e una netta vittoria del “si”, questo referendum ha davvero la forza di cambiare le cose. Giusto per capirne il valore, le dico solo che questo è un referendum per l’attuazione della Costituzione e le spiego il perché.

Prego

In due precedenti pronunce del 1992 e del 2000, la Corte Costituzionale ha espressamente negato referendum analoghi a quello che si terrà a breve in Lombardia e Veneto perché, secondo i giudici costituzionali, una simile consultazione avrebbe avuto un effetto dirompente tanto da condizionare il Parlamento e il Governo. Quindi aveva dato quasi un’eco costituente a questi referendum.

Ora invece ha dato parere favorevole…

Con la sentenza 118 del 2015 la Corte ha effettivamente invertito la rotta. Probabilmente perché si è resa conto che, dopo ben 14 anni, nessuno era riuscito ad applicare l’articolo 116 della Costituzione, che con la riforma del 2001, ha introdotto il regionalismo differenziato, in base al quale una regione può chiedere ulteriori competenze con le relative risorse necessarie per poterle attuare. Principio, quello della differenziazione, decisamente più ragionevole rispetto a quello dell’uniformità (sistematicamente applicato) che di fatto tratta in modo uguale regioni efficienti e regioni meno efficienti.

Dunque, anche se la Costituzione non lo prevede, per applicare questa norma è necessario un referendum…

In fin dei conti si. L’impatto politico è necessario perché la storia insegna che senza referendum questa norma rimane inattuata. Sia Veneto che Lombardia avevano provato a fare richieste simili negli anni scorsi ma poi erano state completamente abbandonate. Per cui la Corte si è resa conto che diversamente le disposizioni costituzionali in materia rimangono inattuate, anche se una consultazione di questo tipo (pur avendo solo valore consultivo e non vincolante), a fronte di una fortissima partecipazione popolare, ha la forza di uno tsunami politico, perché di fatto nessun Parlamento e nessun Governo avrà poi il coraggio di non dare seguito all’istanza di autonomia che viene da due regioni che insieme portano in dote il 30% del Pil italiano.

Facciamo un passo indietro. Lo scorso anno, ci è stato detto che la riforma costituzionale voluta da Renzi (e naufragata poi il 4 dicembre) avrebbe modificato il Titolo V della Costituzione correggendo a sua volta le imperfezioni prodotte dalla legge Bassanini. Secondo lei sarebbe bastata per evitare il referendum sulle autonomie?

Assolutamente no! Anzi, avrebbe esasperato il problema.

Perché?

È molto semplice. La riforma voluta da Renzi peggiorava il titolo V dato che prevedeva una centralizzazione – in modo sciatto e scellerato – di tutte le regioni ordinarie proprio secondo una logica di uniformità, e allo stesso tempo lasciava completamente indenni le regioni speciali che mantenevano una loro maggiore autonomia (autonomia che, se guardiamo la Sicilia, notiamo che ha clamorosamente fallito). Quindi si sarebbe andati oltre il livello di tenuta dell’ordinamento, perché, ad esempio, non si può trattare una regione efficiente come il Veneto, che sulla sanità ha un modello che vanta un eccellenza mondiale, come la Calabria dove sarebbe opportuno invece commissariare tutta la sanità regionale. Qui, così come in Sicilia e nelle altre regioni del Sud, oserei dire che occorre più Stato.

Quindi, detto in uno slogan, “meno Stato al Nord e più Stato al Sud”?

Esattamente. Mentre la riforma di Renzi prevedeva più stato ovunque. Invece, a mio parere, è giusto che lo Stato si faccia da parte laddove si è in presenza di regioni che rappresentano gli unici casi in cui l’amministrazione pubblica italiana è ai vertici nelle graduatorie internazionali (le ripeto il caso della sanità in Veneto) e che quindi da sole riescono a gestire in modo efficiente dei servizi. Al contrario, deve essere più presente in regioni dove questo non avviene. In sostanza, ci vuole una formula a geometria variabile.

Sta dicendo che è d’accordo con chi dice che l’autonomia di Lombardia e Veneto “è utile a tutti” e non contraddice affatto l’unità nazionale…

Certo. Anzi, direi che l’autonomia rafforza l’unità nazionale perché aumenta l’efficienza del Paese. Vede, la rivendicazione di autonomia non è da leggere come un atto egoistico del Nord, della serie “le risorse mie le gestisco io sul mio territorio”. Il discorso è diverso: Lombardia e Veneto chiedendo le stesse competenze di Trento e Bolzano, hanno bisogno anche delle giuste risorse per poterle mettere in atto. Per giunta, se queste risorse e queste competenze rimangono su territori ad alta produttività è evidente che porteranno un beneficio tale da far ripartire il Pil nazionale. E se riparte il Pil riparte tutto il Paese, anche il Sud, dove la gente giustamente richiede che lo Stato faccia maggiormente la sua parte anche e soprattutto con maggiori investimenti (gestiti dallo Stato e non dalle Regioni) sulle infrastrutture.

Nell’epoca del sovranismo, dunque, sembra che si sia posto anche per le spinte autonomiste. Non le sembra una contraddizione?

Mi pare che nessuno oggi stia propagandando un ritorno allo stato unitario. Anche perché paesi federali come la Germania e gli Stati Uniti stanno funzionando molto bene, tanto che hanno affrontato e risolto la crisi economica. Soprattutto gli Stati Uniti: se si pensa che il Pil Usa è molto più avanti del Pil europeo, si fa fatica a dire che sistemi marcatamente federali non producano benefici per l’intera Nazione. Semmai il problema sovranista, chiamiamolo così, è un altro ed è nei confronti di un’Europa che non funziona perché è un progetto incompiuto: unione monetaria senza una unione politica. E questo in un contesto globalizzato è un vero handicap.

Secondo lei, è possibile che la strada dell’autonomia e del federalismo attivi un percorso che porti alla formazione di piccole patrie, accentuando eccessivamente la diversità culturale delle singole realtà? In poche parole: c’è un rischio Catalogna anche in Italia?

No perché qui non stiamo parlando di regionalismo o autonomismo in generale, bensì di riconoscere, prendere finalmente in mano e dare una soluzione a quello che a tutti gli effetti è il “problema italiano”: uno Stato invasivo al Nord e assente al Sud. Anche se…

Anche se…

Continuando a non assecondare la legittima domanda di autonomia di territori come Lombardia e Veneto, domanda dalla quale, come già detto, a trarre beneficio sarebbe tutto il Paese, allora il rischio Catalogna diventa un po’ più reale anche da noi.

(A cura di Carlo Mascio)