“Vieni via con noi”? No grazie, resto qui
16 Novembre 2010
Fini e Bersani comodi sul pulpito di Fazio e Saviano, Andrea Ronchi scomodo sulla poltrona di Porta a Porta, seduto accanto a Di Pietro e Latorre. Due istantanee che raccontano molto di ciò che sta accadendo dentro i palazzi della politica e nei programmi radical chic serviti in salsa antiberlusconiana. Due istantanee che dicono molto pure sulla trama terzo-polista che passa dal campo democrat e sconfina nel vendolismo più integralista per ribaltare ciò che gli elettori hanno deciso nell’urna e impedire così che il voto possa tornare nelle loro mani. Manovre di palazzo, insomma, in diretta tv.
Da Fazio e Saviano niente è lasciato al caso. Tutto studiato nel minimi dettagli, per sorprendere e soprattutto convincere. Uno con la cravatta rossa ‘d’ordinanza’, l’altro blu come il colore del simbolo di Fli. Ma al di là delle nuance scelte con cura per l’esordio televisivo tanto atteso quanto contestato, il presidente della Camera e il capo del Pd declamano più o meno la stessa cosa, al punto che i manifesti dei valori della sinistra e della destra sembrano scritti a quattro mani. Sovrapponibili, come si fa con la carta carbone sul documento originale, ma qui di originale c’è ben poco.
Basta mettere a confronto il foglietto che Bersani tiene tra le mani con l’impaccio di chi non mastica granchè telecamere e microfoni, con quello di un Fini disinvolto e sorridente perchè quando ‘ce vo, ce vo…’. Soprattutto adesso che, a quanto pare, i futuristi si dovranno preparare alla campagna elettorale contro il Cav. e alla prova del nove: il responso delle urne.
Ad aprire il ‘cheek to cheek’ tra potenziali neo-alleati è Fazio che introduce Fini così: “Legge il presidente della Camera, Gianfranco Fini”. Non il capo di un nuovo partito che ha sancito la scissione dal Pdl e aperto la crisi di governo, ma l’inquilino di Montecitorio in persona a declamare le virtù di una destra moderna e virtuosa contro quella sgangherata e ormai alla frutta degli ex-aenne al seguito del Cav.
Ma dov’è finita la terzietà del ruolo al quale il Parlamento lo ha eletto? E come mai Fini, legittimamente, qualche mese fa ha detto no alla campagna elettorale per le regionali e adesso dall’alto della sua poltrona istituzionale apre quella per le politiche sugli schermi di ‘mamma Rai’? Stravaganze del nuovo che avanza. Dalla forma che pure in politica conta, alla sostanza.
Fini mette in fila i valori della “sua” destra: “Un giorno la nostra Italia sarà più pulita, più bella, più responsabile e più attenta perché chi sbaglia paga. Senza l’autorità della legge e una democrazia trasparente ed equilibrata tra i poteri non c’è libertà ma solo anarchia, prevalenza dell’arroganza e della furbizia a discapito dell’uguaglianza dei cittadini che per la destra deve essere garantita nel punto di partenza, al Nord come al Sud, per gli uomini come per le donne, per i figli degli imprenditori come per quelli degli operai”.
Elogio “dell’uguaglianza delle opportunità” perché “la vera uguaglianza, e cioè quella delle opportunità, serve per costruire una società in cui il merito e le capacità selezionano la classe dirigente”. Bersani tira giù il manifesto della sinistra: “Nessuno può stare bene da solo. Stai bene se anche gli altri stanno un po’ bene. Se pochi hanno troppo e troppi hanno poco l’economia non gira perché l’ingiustizia fa male all’economia”. E ancora: “’Chi non paga le tasse mette le mani nelle tasche di chi è più povero di lui e se 100 euro di un operaio o di un pensionato pagano di più dei 100 euro di uno speculatore vuol dire che il mondo è capovolto”. Poi il passaggio sul diritto di un figlio di immigrati di essere italiano.
Segue Gianfranco Fini: “Per la destra sono meritevoli di apprezzamento le tante imprese e le tante famiglie che danno lavoro agli immigrati onesti, i cui figli domani saranno italiani perché la patria non è più soltanto la terra dei padri”. Pierluigi Bersani sale in cattedra: “Per guidare un’automobile che è un fatto pubblico, ci vuole la patente, che è un fatto privato. Per governare, che è un fatto pubblico, bisogna essere persone perbene che è un fatto privato”. Strane coincidenze con la ‘lezione’ di Bocchino che invoca un “governo di responsabilità nazionale anche con la sinistra” e dice che Berlusconi “di diritto dovrebbe essere il presidente del Consiglio ma per storia personale è il meno adatto a ricoprire questo ruolo”. Applausi, audience alle stelle, campagna elettorale in diretta tv.
Quasi in contemporanea, nel salotto di Vespa Andrea Ronchi si ritrova seduto, suo malgrado, sulle poltrone bianche (per tradizione e per bon ton di par condicio), riservate alle opposizioni. Scena che salta all’occhio e non sfugge pure all’ex ministro del governo Berlusconi che lunedì ha obbedito al diktat del suo capo: tutti fuori da Palazzo Chigi. Non è una dimensione nella quale Ronchi sta comodissimo e in effetti in alcuni passaggi della trasmissione sia Vespa che dall’altro lato delle poltrone bianche gli ex alleati del Pdl – Lupi e Gasparri – non hanno mancato di sottolineare.
Il finiano di lungo corso ma tra i finiani oltranzisti il più filo-berlusconiano (almeno fino alla fiducia rinnovata al Cav. in Parlamento un mese fa), si difende con grande dignità e determinazione, ripetendo i motivi della scelta che Fini ha scelto per lui come per Urso, Menia e Bonfiglio, dal palco di Perugia. Ma tra le convinzioni granitiche, un certo imbarazzo trapela.
Forse neanche Ronchi pensava che un giorno gli sarebbe toccato sedersi accanto al giustizialista Di Pietro e al dalemiano Latorre, avversari politici nella seconda repubblica, futuri alleati all’alba della terza. E se il motto tanto in voga di questi tempi è “Vieni via con me”, la risposta più semplice di fronte a tentativi ribaltonisti e grandi ammucchiate è: “No, grazie, io resto qui”.
Chissà se per un attimo lo ha pensato anche Andrea Ronchi, proprio mentre Di Pietro gli rinfacciava davanti alle telecamere di essere stato con Berlusconi per sedici anni.