Violante e la paura del kapitale
24 Agosto 2007
di redazione
Intervistato da Radio Radicale Luciano Violante ha detto tra l’altro: “Io sono d’accordo sull’idea di diminuire un po’ il peso fiscale sul reddito da lavoro e da impresa e aumentare leggermente il peso fiscale su quello da capitale”. Sembra una frasetta da nulla, una mezza dichiarazione da fine agosto invece meriterebbe l’attenzione di un trattato economico.
L’idea che vede contrapposti capitale e lavoro sgorgata dalla parole di Violante mostra in modo abbagliante i residui che inquinano il pensiero economico della sinistra italiana. C’è in sostanza la radicata percezione che l’unico soldo che vale è quello strappato dalle tasche del “padrone” con il sudore della fronte. Il resto è farina del diavolo, speculazione, raid rapinoso e opaco ai danni dei veri lavoratori.
In realtà ormai anche la casalinga di Voghera si collega alla sua banca on-line e compra titoli di borsa e lo stesso fa il metallurgico di Taranto. Reddito da lavoro e da capitale si intrecciano ormai in modo inestricabile e non c’è motivo al mondo per premiare l’uno e punire l’altro.
Chi investe accetta una dose di rischio personale, immette una piccola o grande dose di fiducia sui mercati, assegna un credito a questa o quell’azienda e soprattutto fornisce alle imprese quei capitali senza i quali non potrebbero vivere e prosperare.
Tutto questo dovrebbe essere visto come una benemerenza sociale, premiata e promossa come tale. Invece si cerca senza sosta il modo per penalizzare chi investe e lo fa con oculatezza e profitto. Con il soprammercato di infliggere una tara antropologica che fa di piccoli e grandi investitori insieme, una classe impresentabile e parassitaria.
Quella di Violante è una visione tardo-ottocentesca dell’economia che mal si attaglia – a meno di una buon dose di ipocrisia – all’epoca in cui persino Piero Fassino può dire: “c’abbiamo una banca!”.